In questa newsletter raccontiamo i nostri Futuri Preferibili in tre mosse: partiamo da qualcosa che accade nel presente, prendiamo la rincorsa nel passato e facciamo un salto nel futuro. Non per prevederlo, ma per provare a indirizzarlo.
Noi siamo qui
Pochi temi ci fanno arrovellare come la discussione che riguarda il rapporto con gli schermi. Quanto è dannoso? Quanto dovremmo limitarlo? Quando è il momento di educare i bambini al rapporto con la tecnologia? Ha senso fare finta che gli schermi non esistano?
Andrea ci ha suggerito il tema di questo numero di Futuri Preferibili e, da genitori di bambini piccoli, abbiamo pensato che fosse importante farci qualche domanda a proposito.
Recentemente si è parlato molto degli effetti che la continua esposizione agli schermi e agli ambienti digitali ha sulla mente umana, in particolare su quella delle persone più giovani.
Sempre più studi e ricerche individuano una correlazione tra l’aumento del tempo passato davanti agli schermi e la diminuzione del benessere mentale. Lo psicologo statunitense Jonathan Haidt ha lanciato un autentico atto d’accusa contro le tecnologie digitali nel suo libro The Anxious Generation, in cui afferma che la diffusione dei social media e la dipendenza da smartphone sono la causa di un’epidemia di disagio psichico tra i più giovani. La soluzione? Proibire gli smartphone sotto i 16 anni.
L’Unione Europea sta valutando di aprire un procedimento giudiziario contro Meta: l’accusa è che l’azienda avrebbe deliberatamente ignorato i rischi di manipolazione e creazione di dipendenza connessi agli algoritmi che regolano Instagram e Facebook. E anche negli Stati Uniti sono in discussione diverse cause e provvedimenti di questo tipo.
Anche noi abbiamo parlato del potenziale di addiction implicito nel design delle tecnologie digitali, e della lotta per i nostri occhi che sta alla base dell’economia dell’attenzione, per provare a delineare un’idea diversa delle relazioni online e offline.
Anche se ci sono diversi studiosi e analisti che mettono in discussione un rapporto diretto di causa-effetto tra uso degli smartphone e disagio mentale, l’impatto che queste tecnologie hanno sulla nostra vita psichica, sociale, affettiva è innegabile. Anche perché non riguarda soltanto i più piccoli: riguarda forse in primo luogo noi adulti, che viviamo in simbiosi con i nostri dispositivi, e attraverso il nostro comportamento facciamo diventare, agli occhi di bambini e ragazzi, lo smartphone un oggetto del desiderio dal quale è impossibile non essere attratti.
Per questo vale la pena chiedersi: che tipo di società e di umanità vediamo, quando guardiamo negli schermi? Ci piace? Esiste un’alternativa?
Flashback
Quasi tutte le innovazioni più rilevanti, quelle che hanno cambiato in profondità le nostre vite, prima o poi hanno incontrato obiezioni e suscitato paure, e sono state investite da quello che viene definito “panico morale”.
Nel Rinascimento, dopo l’invenzione della stampa, c’era chi si scagliava contro i pericoli della lettura dei libri, affermando che l’immobilità della lettura provocava danni psichici e fisici. E lo stesso è successo al treno, all’automobile, alla televisione, alla musica rock, a Internet.
La differenza tra queste paure, che ora ci fanno sorridere, e la paura di schermi e algoritmi non è che le paure di oggi sono più fondate: ci sono, come sempre è stato, elementi realistici ed esagerazioni, preoccupazioni ragionevoli e allarmismi. La differenza è di scala: l’impatto delle tecnologie digitali è così capillare, diffuso e ottimizzato da rendere la sua capacità di penetrazione e di trasformazione della cultura molto più potente. L’influenza e la potenza economica che le piattaforme hanno accumulato rende la loro azione difficilmente controllabile, contrastabile e reversibile.
Proprio grazie a questa forza di penetrazione, le grandi piattaforme tecnologiche hanno creato un’omogeneità culturale senza precedenti nella storia umana. Una capacità di rendere le esperienze estetiche, l’intrattenimento, perfino il business sempre più frutto di ripetizione e imitazione – e sempre più povero di differenze ed elementi divergenti.
L’ultima magistrale newsletter di Paul Worthington affronta proprio questo concetto.
La classe creativa sostiene di “progettare per la cultura”: se così fosse, sostiene Paul, ci troveremmo di fronte a una creatività vivace ed esplosiva senza precedenti. Invece il nostro panorama culturale è diventato tanto omogeneo quanto i creativi che rivendicano la capacità di saper progettare per la cultura.
Questo accade perché non stiamo progettando per la cultura, né per gli esseri umani: piuttosto progettiamo per le macchine, gli algoritmi che indirizzano le nostre scelte. La cultura si omogeneizza perché conviene alle piattaforme. Più la cultura si omogeneizza, più diventiamo prevedibili; più diventiamo prevedibili, più è facile monetizzare la nostra attenzione.
Con il declino delle istituzioni educative, con le possibilità di esperienza diretta e offline che si riducono, i media digitali rischiano di essere l’unico universo che le persone frequentano, l’unico “educatore” che bambini e ragazzi hanno a disposizione. La varietà delle esperienze e degli stimoli si riduce drasticamente.
E allora la domanda torna a essere quella che ha accompagnato tutte le innovazioni nel corso della storia: che cosa stiamo chiedendo alla tecnologia? Come vogliamo che interagisca con i nostri valori, con i nostri modelli di formazione ed educazione, con i nostri progetti di crescita e trasformazione?
Fast Forward
Come ha ricordato recentemente lo scrittore Ted Chiang in un affascinante articolo pubblicato dal New Yorker, le persone che criticano le nuove tecnologie sono spesso chiamate luddisti.
I luddisti, però, non protestavano contro le macchine, ma contro il fatto che nell’era delle macchine i loro salari diminuivano, mentre i profitti dei proprietari delle fabbriche aumentavano, insieme ai prezzi dei generi alimentari.
Protestavano contro le condizioni di lavoro alle quali erano sottoposti, contro lo sfruttamento del lavoro minorile e la vendita di merci scadenti che screditavano l'intera industria tessile. I luddisti non distruggevano indiscriminatamente le macchine; se il proprietario di una macchina pagava bene i suoi lavoratori, la lasciavano funzionare. I luddisti non erano contro la tecnologia; quello che chiedevano era la giustizia sociale. Distruggevano i macchinari per attirare l’attenzione dei proprietari delle fabbriche. Il fatto che oggi la parola “luddista” venga usata come insulto, un modo per accusare qualcuno di essere irrazionale e ignorante, è il risultato di una campagna finalizzata a screditare le richieste sociali di quel movimento.
Ogni volta che qualcuno accusa qualcun altro di essere un luddista, suggerisce Chiang, vale la pena chiedersi: la persona accusata è davvero contro la tecnologia? O sta facendo una rivendicazione sociale? E la persona che muove l’accusa è realmente a favore del miglioramento della vita delle persone? O sta solo cercando di aumentare l’accumulo privato di capitale?
Oggi ci troviamo in una situazione in cui la tecnologia è diventata sinonimo di capitalismo, concetto che a sua volta si è fuso con l’idea stessa di progresso. Chi critica il capitalismo viene accusato di opporsi sia alla tecnologia, sia al progresso. Ma che cosa significa davvero progresso, se non include una vita migliore per le persone? Qual è il senso di una maggiore efficienza, se il denaro risparmiato non va da nessuna parte se non nei conti bancari degli azionisti?
In questo momento la forza economica e culturale delle imprese tecnologiche è tale che dovremmo tutti essere un po’ più luddisti, perché dovremmo tutti preoccuparci di più delle conseguenze sociali degli strumenti che usiamo. Dobbiamo essere in grado di criticare gli usi dannosi della tecnologia - e tra questi includiamo gli usi che avvantaggiano gli azionisti a scapito degli utenti - senza essere descritti come avversari della tecnologia.
Costruire un Futuro Preferibile per la nostra relazione con gli schermi significa uscire dal dibattito schermi sì / schermi no, perché questo ci riporterebbe all’errore storico già fatto con i luddisti. Non vogliamo immaginare un mondo senza la tecnologia. Vogliamo imparare a valutarne con attenzione le conseguenze sociali.
Le tecnologie digitali fanno già parte in modo pervasivo del nostro mondo: non possiamo pensare di farne a meno, né possiamo basare le nostre strategie di contrasto su proibizioni e limitazioni. Non possiamo più distruggere gli schermi, nemmeno in senso metaforico.
Il nostro “luddismo preferibile” dovrà riguardare quello che sta dentro gli schermi, il modo in cui li usiamo e creiamo relazioni attraverso i dispositivi. La nostra lotta dovrà concentrarsi sul combattere l’omogeneizzazione culturale, la riduzione delle esperienze e delle possibilità, la FOMO, le asimmetrie di accesso alla conoscenza e alla ricchezza, i comportamenti che creano addiction a cui tutti siamo esposti. Dovremo imparare a distinguere, in quello che passa attraverso i dispositivi, ciò che davvero disturba la crescita, lo sviluppo emotivo e psicologico, l’autonomia e la capacità di coltivare relazioni. Soprattutto, dovremo contribuire a immettere nella cultura digitale contenuti ed esperienze alternative, divergenti, significative.
Sarà questo il nostro modo di rompere gli schermi.
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