In questa newsletter io e Paolo raccontiamo i nostri Futuri Preferibili in tre mosse: partiamo da qualcosa che accade nel presente, prendiamo la rincorsa nel passato e poi facciamo un salto nel futuro. Non per prevederlo, ma per provare a indirizzarlo.
Andiamo?
Noi siamo qui
Arianna ci ha suggerito di leggere un libro: Talento ribelle – Perché infrangere le regole paga (nel lavoro e nella vita). L’autrice è Francesca Gino, docente ad Harvard e studiosa di creatività e produttività.
Tutto comincia da una ricetta: quando Francesca legge il libro Never Trust a Skinny Italian Chef di Massimo Bottura si accorge che le proposte dello chef sono delle violazioni sistematiche della tradizione gastronomica italiana. La sperimentazione di Bottura rompe tutti i principi più sacri della nostra cucina, quelli che spesso ci troviamo a difendere dai “barbari” e popolano i meme e i dibattiti social. Ma è proprio questa violazione ad averlo reso uno dei cuochi più noti al mondo.
A partire da questa intuizione, la scienziata ha indagato il comportamento di molti altri leader di successo. E ha scoperto che spesso ciò che li accomuna è la tendenza a infrangere le regole, pensare in modo diverso, farsi domande che la maggior parte delle persone non si fanno. Quasi tutti i leader che hanno lasciato un segno del mondo in un modo o nell’altro sono dei ribelli.
In un’epoca come la nostra, che l’Economist ha definito di “prevedibile imprevedibilità”, una delle capacità più importanti del leader è quella di mettere in discussione lo status quo, chiedersi continuamente cosa succederebbe se le cose si facessero in modo diverso, e incoraggiare la “difformità” anche nei propri team e gruppi di lavoro. Accogliere qualche rompiscatole in più, qualche contestatrice, qualche disobbediente, potrebbe fare bene alle organizzazioni e renderle più capaci di innovare.
Flashback
La ribellione fa parte della storia dell’umanità. Senza la capacità di mettere in discussione i comportamenti consolidati non ci sarebbe evoluzione, né culturale, né tecnologica. Se gli ultimi 150 anni sono stati quelli in cui l’umanità ha conosciuto il periodo di maggiore progresso della sua storia, è anche perché il Novecento è stato il secolo delle rivoluzioni: da quelle politiche che hanno reso le masse protagoniste della storia, a quelle culturali e di costume.
Ha agito da ribelle Albert Einstein quando ha pensato un modo diverso di rappresentare l’universo. Ha agito da ribelle Rosa Parks quando ha rifiutato di lasciare il posto sull’autobus a un bianco. Ha agito da ribelle Gandhi quando ha scelto di combattere l’oppressione con la non violenza. Ha agito da ribelle Adriano Olivetti quando ha immaginato un capitalismo a misura di essere umano. E così via…
Come si riconosce un ribelle? Secondo Francesca Gino i ribelli agiscono guidati da otto comportamenti principali:
escono dalla routine
cercano opinioni diverse, stimolano il conflitto, non vogliono essere assecondati
non contraddicono, ma aggiungono la loro opinione a quella degli altri: dicono “sì, e poi…” anziché “sì, ma…”
non si nascondono e non fanno finta di essere ciò che non sono
imparano in fretta, ma sanno anche disimparare
vedono i vincoli come uno stimolo per la creatività
stanno in trincea, non rifiutano di sporcarsi le mani anche quando hanno ruoli dirigenziali, hanno poca attenzione per le gerarchie
sanno riconoscere il potenziale degli errori
I Paesi che sanno accogliere la cultura della ribellione e, anziché reprimere i ribelli, lasciano loro margini di manovra, sono quelli più capaci di innovare e di guidare il cambiamento. È sicuramente così per gli Stati Uniti, dove il rispetto per la libertà personale apre sempre uno spazio a chi si mette in testa di fare le cose in modo diverso.
Dai pionieri della corsa al West, alla cultura hippy, ai contestatori degli anni Settanta, fino ai visionari della tecnologia, gli sfidanti dello status quo negli USA non solo sono stati liberi di esprimersi, ma si sono quasi sempre rivelati un motore di accelerazione, sviluppo e trasformazione per il Paese. Non restare vincolati alle tradizioni, disobbedire ai padri, cambiare rapidamente abitudini e mentalità sono comportamenti tipicamente americani, una delle ragioni della resilienza dell’economia statunitense.
Steve Jobs, con la sua visione e con ciò che è riuscito a creare attraverso Apple, non è stato solo uno di questi ribelli capaci di spostare in avanti gli orizzonti dell’umanità. Ha anche creato il ritratto definitivo dei ribelli trasformativi, nel celebre manifesto Think Different: “the ones who are crazy enough to think they can change the world are the ones who do”.
Chi è abbastanza pazzo da pensare di poter cambiare il mondo, finisce col cambiarlo davvero.
Francesca Gino ha studiato l’organizzazione delle navi pirata per comprendere il comportamento dei ribelli. Equipaggi formati da persone scelte esclusivamente per le proprie capacità, gerarchie flessibili, elezione del capitano che poteva anche essere rimosso dall’incarico. E il “pirate management”, la gestione pirata delle organizzazioni, è stato lo stile manageriale più diffuso nella Silicon Valley, ovvero uno dei più straordinari acceleratori d’innovazione che l’umanità abbia mai conosciuto.
Il management pirata delle aziende e delle piattaforme tech può essere ricondotto a un unico principio: hackerare tutti i fondamenti del management tradizionale. I processi decisionali, la gerarchia, il modo di lavorare in gruppo: tutto è stato ribaltato a favore della capacità delle persone di imparare, prendersi responsabilità, emergere e collaborare. Anche il rapporto con le competenze è stato hackerato: laddove prima ci si affidava meccanicamente agli esperti, si è cominciato a pensare che persone meno esperte potevano magari fare degli errori, ma anche aiutare a trovare soluzioni completamente nuove.
Negli ultimi anni l’efficacia della ribellione è diventata più evidente, e alcuni elementi della cultura ribelle si sono affacciati nel mainstream. Proclamare di essere “rivoluzionari” è diventato abbastanza comune, anche quando non si stanno esattamente facendo rivoluzioni epocali. E così la postura del ribelle diventa spesso simulata, un gesto teatrale eseguito perché “funziona”, vende, è comprensibile e riconoscibile.
Ma la ribellione non può mai essere l’opzione sicura. Se non è associata a un rischio reale, se chi la fa non mette in gioco una parte importante di sé e del proprio destino, non è vera ribellione. È retorica, e non diventerà mai un innesco per l’innovazione e il cambiamento.
Fast forward
Come alimentare allora una cultura della ribellione autentica, in grado davvero di mettere in discussione le cose, cambiarle, favorire innovazione e trasformazione?
La chiave per noi è tornare a fare e farsi le domande capaci di innescare un nuovo punto di vista sulle cose. Formulare la domanda giusta, la domanda inattesa, quella che gli altri evitano di porsi, spesso è più importante di dare una risposta. Inventare nuove domande è spesso l’atto più creativo e produttivo col quale si affronta un problema.
Nel nostro futuro preferibile si dà spazio alle persone che rifiutano deliberatamente le definizioni standard, quelle che ci hanno insegnato fin da piccoli, quelle per cui pensiamo che le cose siano immutabili e sempre identiche a sé stesse. Mettere in discussione le definizioni, e sostituirle con le domande. Invece di ripetere “l’educazione è ciò che succede a scuola”, chiedersi “cosa voglio imparare?”, “cosa voglio insegnare ai miei figli?”. Invece di ripetere “benessere vuol dire ricchezza”, chiedersi “cosa ci fa stare bene nella vita?”, “cosa è importante per noi?”. Ridefinire i concetti può anche portarci a confermare ciò di cui eravamo convinti. Ma dopo averlo fatto quelle convinzioni saranno davvero nostre.
L’importanza delle domande e delle riformulazioni si accorda all’idea che in un mondo in continua trasformazione disimparare è una capacità tanto importante quanto quella di imparare. Essere pronti a cambiare mindset, a dimenticare abitudini e anche conoscenze che abbiamo ritenuto utili e valide è un’abilità cruciale, perché favorisce l’adattamento al cambiamento e la possibilità di esplorare percorsi non battuti.
Ma non possiamo disimparare se non impariamo a chiederci: quello che sappiamo è ancora valido, utile e significativo per noi?
Valerio Bassan ha scritto che con la diffusione dei software di intelligenza artificiale e dei loro modelli conversazionali potrebbe cambiare il nostro modo di dialogare con i contenuti digitali. Non più ricerche fatte con poche parole chiave da parte nostra e richieste imperative e assertive - scopri! guarda ora! condividi! - da parte delle piattaforme. Ma un ritorno alla conversazione, alla domanda elaborata e meditata.
Non è detto che finisca così, certo, ma questo sarebbe davvero un futuro preferibile. Un futuro in cui gli strumenti nuovi che stiamo sviluppando non solo non ci dicono cosa fare, ma ci aiutano e ci educano a fare sempre nuove domande. Un futuro in cui tanto migliore sarà l’esito della risposta quanta più cura, attenzione e pensiero avremo messo nella domanda.