In questa newsletter sperimentiamo con un nuovo format: allo schema classico di Futuri Preferibili uniamo quello di Brand dal Futuro, la serie speciale in cui ci occupiamo di branding. L’obiettivo è rispondere a questa domanda: come rendiamo convincente un futuro che ci appare lontano, sconosciuto e a tratti spaventoso?
Noi siamo qui
Qualche giorno fa Ted Gioia ha scritto un pezzo molto bello e molto duro: The State of the Culture, 2024.
L’articolo è un’analisi della situazione attuale della cultura. Ted rappresenta il succedersi dei fenomeni culturali con l’immagine di una catena fatta di pesci grandi che ogni volta arrivano a mangiare i pesci più piccoli:
il pesce più piccolo di tutti è l’arte, mangiata dall’intrattenimento: ogni tentativo di produrre qualcosa di artistico, indie o alternativo è stato sempre più rapidamente fagocitato dalla grande industria dell’entertainment;
poi anche l’intrattenimento è entrato in crisi – le industrie dei film, della TV e della musica hanno interrotto la loro crescita – ed è stato a sua volta mangiato da quello che Ted chiama la distrazione, lo scrolling, il puro flusso di contenuti che non sono né arte né intrattenimento, ma solo un modo per continuare a far scorrere le nostre dita sugli schermi degli smartphone, più a lungo possibile;
oggi, un pesce ancora più grande si affaccia minaccioso all’orizzonte: l’addiction, la dipendenza dagli stimoli delle piattaforme, figlia del modo in cui l’industria tecnologica guarda alla cultura. Le piattaforme infatti hanno inglobato la creatività e l’intrattenimento non per promuoverli, ma per trasformarli in piccole scariche di piacere che le persone sono portate a ricercare e a ripetere, fino all’assuefazione. Il vero obiettivo delle piattaforme, nelle parole crude di Ted Gioia, è “creare un mondo di drogati, di cui diventare gli spacciatori”.
Nel racconto di Ted l’apice dell’addiction si raggiunge con i caschi AR/VR/XR, come la serie Quest prodotta da Meta e soprattutto il nuovissimo Apple Vision Pro. Un articolo uscito un paio di settimane fa su Business Insider parla di come l’utilizzo prolungato dei visori potrebbe letteralmente cambiare il modo in cui percepiamo il mondo e la nostra relazione con gli altri. Un gruppo di ricercatori guidati da Jeremy Bailenson, professore di Stanford e fondatore del Virtual Human Interaction Lab, ha trascorso due settimane indossando visori durante lo svolgimento delle normali attività quotidiane. La loro conclusione è che l’esperienza può ispirare e stupire e si presta a molte applicazioni, ma è anche causa di effetti indesiderati come errori nel giudizio sulla distanza, malessere da simulatore e interferenza con le relazioni sociali.
Bailenson afferma che utilizzando i visori in pubblico scomparirà il terreno comune della nostra esperienza: le persone si troveranno nello stesso luogo fisico, ma sperimenteranno versioni simultanee e visivamente diverse del mondo.
Flashback
Nel corso del tempo i media si sono gradualmente avvicinati ai nostri corpi: dallo schermo del cinema nei primi anni del secolo scorso, alla televisione negli anni ’30, al laptop negli anni ’80, allo smartphone negli anni 2000, fino agli attuali schermi indossabili. Gli schermi aderiscono a noi e diventano sempre più immersivi e interattivi. Allo stesso tempo, però, diventano delle barriere sociali perché possono essere utilizzati solo da una persona alla volta, isolandola così dalla realtà circostante.
Il cinema e la letteratura fantascientifica hanno raccontato molto bene fenomeni analoghi di alienazione dalla realtà, con sfumature diverse.
In Matrix, per esempio, un’entità di intelligenza artificiale imprigiona gli esseri umani e li catapulta in una realtà immaginaria, sottraendo loro completamente la volontà.
In Ready Player One gran parte della popolazione vive in condizioni di estrema povertà e per questo si rifugia in Oasis, un videogioco online multigiocatore in realtà virtuale.
Strange Days dipinge un futuro distopico dove esistono clips per il “filo-viaggio”: registrazioni di esperienze altrui in realtà virtuale, che includono input sensoriali, stimolano cioè vista, udito, tatto e olfatto, e che, tramite un lettore SQUID (Dispositivo Superconduttore a Interferenza Quantica), possono essere rivissute da chiunque.
La tecnologia dei visori è un bypass: perché fare effettivamente qualcosa, quando semplicemente si può provare piacere grazie a pochi elettrodi ben collocati? Nell’immaginario della fantascienza si può corto-circuitare il normale processo di ricompensa del cervello e indurre artificialmente il piacere, senza bisogno di fare esperienze dirette.
A pensarci bene, Internet descritto da Ted Gioia, come un sistema basato su stimoli e addiction, funziona esattamente allo stesso modo. La nostra esperienza online oggi somiglia a quei film, con i feed guidati dagli algoritmi che alimentano il nostro cervello con contenuti opportunamente orchestrati per eccitarci, accendere il nostro desiderio, farci arrabbiare, o renderci irrequieti, agitati, insoddisfatti.
Per molti di noi il tempo trascorso online supera quello offline. Il mondo fisico è passato dall’essere il luogo in cui viviamo a qualcosa che fa da sfondo a Internet mentre controlliamo i nostri smartphone.
Ed è normale domandarsi: con chi compete realmente Vision Pro? Con il Meta Quest, con gli altri schermi (la TV e il cinema), o magari con la casa dei sogni, un viaggio, una vacanza, il tempo passato in famiglia o con gli amici? E se non fosse un gadget tecnologico per super-ricchi, ma – come racconta Ready Player One – la possibilità di vivere una vita normale per chi non può permettersela nel mondo fisico?
Un futuro possibile, certo non preferibile, è quello di un digital divide al contrario: i ricchi manifesteranno il proprio benessere disconnettendosi, mentre i poveri si rifugeranno online per sfuggire a una realtà infelice.
Di sicuro, nell’immediato futuro Vision Pro servirà a potenziare Internet, creando un cocktail di stimoli immersivi senza precedenti. Zuckerberg si è schierato in prima persona per difendere il suo Meta Quest contro Apple Vision Pro, ma la vera competizione qui non è tra i due visori. Questi prodotti, che vengono spesso categorizzati come strumenti di produttività o intrattenimento, hanno a che fare soprattutto con la direzione che prenderà Internet e quindi è lecito pensare che le aziende che hanno dominato l’ultimo decennio, inclusa Meta, continueranno a prosperare insieme (o grazie?) ai loro creator e ai loro utenti.
Futuri desiderabili
Lo scenario per lanciare un visore non è dei più semplici. Apple lo sa bene, ed evidentemente si è chiesta: come possiamo rendere il nostro nuovo prodotto – e il futuro che porta con sé – desiderabile? Facendo esattamente quello che abbiamo scritto diverse volte in questa newsletter, cioè cercando di renderlo familiare attraverso storie, simboli ed esperienze che creano il contesto più fertile in cui far attecchire il nostro futuro.
Guardate questo video.
Il nuovo Vision Pro non è un visore per la realtà aumentata o virtuale: è la maschera di Ironman, il casco di Luke Skywalker, gli occhiali di Doc in Ritorno al Futuro.
Apple si serve del passato e dell’immaginario culturale collettivo per rendere il futuro del suo Vision Pro non solo meno spaventoso, ma desiderabile. Tutti abbiamo sognato di poter manipolare oggetti virtuali come fa Tony Stark con il suo Jarvis, o di volare avanti e indietro nel tempo insieme a Marty e Doc. Ora possiamo farlo, con Vision Pro: possiamo essere gli eroi, i pionieri, gli esploratori che avremmo sempre voluto essere.
Ma nel video non c’è solo questo. C’è anche una citazione del primo spot dell’iPhone, un montaggio di spezzoni di film dove attori famosi pronunciano la parola “Hello” al telefono. Con quello spot Apple aveva fatto una mossa potentissima, creando l’illusione ottica che tutta la storia del telefono, anzi la storia della comunicazione a distanza e della cultura che ha creato intorno a sé, andava a confluire nell’iPhone (e non sono andati tanto lontano da quello che poi sarebbe successo). Allo stesso modo, oggi Apple ci dice che tutta la storia del viaggio attraverso mondi alternativi e realtà aumentate confluisce nel Vision Pro. Inoltre, Apple suggerisce che quello del Vision Pro è un nuovo “momento iPhone”, qualcosa che cambierà per sempre il modo in cui ci relazioniamo con noi stessi e con gli altri.
Brian Collins, co-fondatore dell’omonimo studio di design, una volta ha detto:
Metà del nostro lavoro in quanto artisti e di rendere ciò che ci è familiare completamente irriconoscibile. L’altra metà è rendere ciò che ci è completamente estraneo il più familiare possibile.
In questo spot Apple riesce a fare bene entrambe le cose: ci convince che il futuro del Vision Pro non fa paura e allo stesso tempo ci dà un assaggio delle cose straordinarie che ci permetterà di fare, da qui in avanti.
Ma il futuro rappresentato dallo spot è desiderabile anche perché promette di rispondere alle considerazioni di Ted Gioia da cui siamo partiti. Il Vision Pro non dovrà diventare l’arma finale per generare assuefazione, una nuova potentissima piazza di spaccio, ma uno strumento per creare, immaginare, aprire nuovi orizzonti. Non dovrà essere la pillola blu di Matrix, ma la maschera di un nuovo super-eroe che possa aiutarci a risolvere nuovi problemi. Non dovrà essere l’operazione di distrazione di massa di Ready Player One, ma gli occhiali di Doc, che ci permetteranno di viaggiare in nuove dimensioni.
Naturalmente, perché questo futuro desiderabile diventi presente non basta la creatività, per quanto geniale: serviranno policy coerenti, responsabilità nella gestione dei dati, un diverso ecosistema dei contenuti, nuovi modelli di business. Strade? Non ci servono strade!, dice Doc nell’ultimo frammento dello spot. E l’auspicio è proprio che questa nuova evoluzione della cultura digitale non segua le strade già tracciate, lungo le quali le piattaforme tech hanno perso la fiducia delle persone, ma possa servire a scoprire strade nuove e inattese.