In questa newsletter io e Paolo raccontiamo i nostri Futuri Preferibili in tre mosse: partiamo da qualcosa che accade nel presente, prendiamo la rincorsa nel passato e poi facciamo un salto nel futuro. Non per prevederlo, ma per provare a indirizzarlo.
Noi siamo qui
MATTEO
Nel 2010 i laureandi della Harvard Business School chiesero al professor Clayton Christensen alcuni consigli su come applicare quello che avevano studiato non alle loro carriere post-laurea, ma alla loro vita personale. Quando nel 2007 avevano iniziato il corso l’economia era forte e le loro ambizioni illimitate. Solo poche settimane dopo, invece, l’economia era andata in tilt. Avevano bisogno di un aiuto per ricalibrare la loro visione del mondo e la loro definizione di successo.
PAOLO
La situazione in cui ci troviamo adesso non è molto diversa da allora. Facciamo ancora i conti con gli effetti di una pandemia globale, il conflitto in Ucraina ha riportato la guerra in Europa e quello sanguinoso di Gaza minaccia di allargarla ulteriormente, l’inflazione scuote l’economia, una nuova ondata di disruption tecnologica promette di trasformare tutto.
Oggi, come allora, siamo in molti a chiederci che cosa siano la felicità e il successo e che cosa serva per raggiungerli. Una domanda che riguarda tanto le persone quanto le aziende. Per questo forse ha ancora senso riflettere sullo stesso interrogativo discusso da Christensen con i suoi studenti: come misureremo le nostre vite?
Flashback
MATTEO
Un paio di settimane fa Paul Worthington ha scritto un pezzo meraviglioso su marketing e metriche. Paul sostiene che, negli ultimi vent’anni, l’industria del marketing ha investito tutte le proprie risorse per cercare di risolvere quello che viene definito come il paradosso di Wanamaker:
Metà del denaro che spendiamo in pubblicità è sprecato, il guaio è che non sappiamo quale metà sia.
Lo spreco di denaro è il nemico numero uno del marketing. L’unico modo per contrastarlo è riuscire a misurare i risultati. Ma siccome misurare i canali tradizionali come TV, radio e stampa è estremamente complesso, il paradosso di Wanamaker sembra aver trovato la soluzione perfetta con il digital.
Ricordo che nel 2008-2009, con I MILLE, seguivamo la comunicazione dello IAB Forum, l’evento più importante sulla pubblicità e l’innovazione digitale. Già allora tutte le agenzie, i centri media e le società di consulenza cercavano di convincere le aziende che i loro investimenti di marketing sarebbero stati più efficienti se spostati sui canali digitali. Ma proprio questo è il problema del marketing, secondo Paul: da attività strategica che serve ad aumentare il valore di un’azienda è diventata un’attività tattica che punta a rendere l’azienda più efficiente.
Un tempo il marketing era un big number game: aveva a che fare con i clienti, i prodotti, i competitor, la crescita e le performance del business; ora invece è ossessionato dagli short numbers, a cominciare dal ROI.
Ma il ROI, appunto, misura l’efficienza del marketing, non la sua efficacia nel contribuire alla crescita di un’azienda. Per far crescere un’azienda, infatti, il ritorno sugli investimenti pubblicitari deve per forza ridursi. Questo perché la crescita è direttamente collegata all’acquisizione di clienti che sono meno inclini a comprare da noi e che quindi costano di più. Chi se la sentirebbe, però, di spiegare questo concetto a un CFO che deve aumentare l’utile e comprimere i costi per la chiusura del prossimo quarter?
Negli ultimi vent’anni ci siamo fatti condizionare dalle nuove metriche, più facili da misurare grazie al digital, e le abbiamo elevate a obiettivi del nostro lavoro, perdendo di vista gli obiettivi strategici di lungo periodo. Google e Meta hanno alimentato l’ossessione per il micro-dato, nutrendo una generazione di marketer dai titoli più disparati (growth hacker su tutti) drogati di performance e ottimizzazione di metriche tattiche.
Oggi sappiamo che il problema del marketing non è il paradosso di Wanamaker, ma la mancanza di focus e di risorse per fare del marketing ciò che dovrebbe essere davvero: un big number game che fa crescere l’azienda e le sue performance. E rispetto a vent’anni fa abbiamo un vantaggio, cioè sappiamo meglio che cosa funziona e perché.
PAOLO
Del resto non accade solo nel marketing: in molti campi l’ossessione per le metriche deforma i comportamenti e fa perdere di vista gli obiettivi fondamentali di un’organizzazione. Nel mondo della formazione è accaduto lo stesso con i ranking che valutano scuole e università.
Dai ranking dipende non solo il prestigio delle università, ma la loro capacità di attrarre iscritti e ottenere finanziamenti. E di conseguenza le università hanno sviluppato una serie di tattiche per alterare i numeri e adeguare le performance ai parametri su cui sono costruite le classifiche. A volte con piccoli sotterfugi, altre volte con pratiche apertamente fraudolente. Il tutto naturalmente senza nessun vantaggio per studenti e studentesse, che anzi vengono danneggiati dall’ossessione per le metriche. Perché il tempo e le risorse spese per scalare le classifiche sono spesso sottratte al rafforzamento di insegnamento e ricerca.
In Italia il sistema di valutazione ministeriale della ricerca ANVUR è ormai apertamente contestato non solo per la sua incapacità di valutare l’effettiva qualità del lavoro di ricercatori e ricercatrici, ma perché ha innescato una spirale tossica di curricula gonfiati e pubblicazioni prodotte solo per raggiungere i parametri richiesti, senza alcun valore scientifico.
Qualcosa di simile accade con l’ormai famoso punteggio dei test OCSE PISA per le scuole medie e superiori. Ogni volta alla pubblicazione dei risultati si sprecano le grida di dolore sulla decadenza della scuola italiana, confrontata con i risultati migliori degli altri Paesi. Senza voler sminuire i problemi del nostro sistema educativo, va notato però che l’impostazione dei test da anni è molto discussa, la loro capacità di misurare l’apprendimento è dubbia, e in più in molti Paesi gli studenti vengono preparati appositamente per superare il test, e non per imparare una materia.
Un po’ come il PIL secondo la famosa frase di Bob Kennedy, graduatorie e classifiche misurano tutto fuorché ciò per cui vale la pena studiare. E diventano esempi che confermano un principio noto come legge di Goodhart:
Ogni misurazione che diventa un obiettivo smette di essere una misurazione affidabile.
Se l’obiettivo delle università diventa scalare il ranking anziché far crescere gli studenti, il ranking non ha più valore. Se l’obiettivo di una scuola diventa superare i test anziché insegnare una materia, il test smette di avere valore.
E non è molto diverso ciò che è accaduto alle nostre vite quando sono entrate in contatto con i social media. Da strumento di connessione e condivisione di esperienze e contenuti, i social si sono trasformati in strumenti di misurazione delle nostre performance sociali. Le loro metriche hanno iniziato a misurare il valore anche economico delle nostre vite. Fino al paradosso che non produciamo più contenuti per parlare agli altri, e nemmeno per compiacere un pubblico di umani, ma per assecondare gli algoritmi e i loro sistemi di misurazione. Per questo in futuro sarà sempre più importante scegliere le unità di misura a cui dare importanza: il modo in cui “ci misuriamo” influenza in profondità il nostro modo di vivere e di interagire con gli altri.
Fast forward
MATTEO
Come esseri umani siamo estremamente inclini a preferire risultati facili rispetto alle sfide complesse. Se a questa attitudine innata aggiungiamo il funzionamento del nostro sistema economico, gli algoritmi e le metriche dei social media, capiamo bene perché molti di noi preferiscono darsi obiettivi di vita semplici e velocemente raggiungibili, precludendosi opportunità più importanti e strategiche.
Per il nostro Futuro Preferibile cerchiamo quindi un modo per cogliere tutte le opportunità, fissando obiettivi di lungo periodo e imparando a misurarli. Come fare?
Rob Hardy propone un framework interessante basato su quella che definisce resonance. La resonance è una misura che valuta l’impatto delle nostre attività da due punti di vista:
interno: come ci ha fatto sentire fare una determinata azione? È qualcosa che nessun altro tranne noi avrebbe potuto fare? È in linea con ciò che siamo e che vogliamo diventare?
esterno: come hanno risposto le persone? Abbiamo suscitato delle emozioni? Abbiamo generato reazioni non automatiche e non comuni?
Da qualche anno mi sono appassionato alla bicicletta da corsa e posto le mie attività su Strava. Alla fine di ogni attività, Strava mi fa una domanda: How did that activity feel? Posso rispondere muovendo un cursore tra due estremi: Easy e Max effort. La risposta a questa domanda valuta un parametro che si chiama Perceived Exertion, una misura del grado di fatica percepito dall’atleta che affianca (o, in assenza di strumenti di misurazione, sostituisce) i dati oggettivi della frequenza cardiaca o della potenza generata durante l’attività.
La Perceived Exertion somiglia moltissimo all’internal resonance di Rob Hardy. Nonostante esistano decine di strumenti per misurare in modo oggettivo una determinata attività o performance, il valore soggettivo che le attribuiamo è altrettanto importante. Tuttavia questo valore è nella migliore delle ipotesi sottovalutato, mentre nella peggiore viene ignorato in favore di scelte e azioni ottimizzate per generare un apprezzamento esterno immediato e facilmente misurabile.
I social media sono pieni di esempi di aziende e professionisti che hanno perso qualsiasi contatto con la propria identità e ormai creano contenuti soltanto per assecondare trend e algoritmi, finendo per assomigliare a tutti gli altri. Invece ogni volta che pubblichiamo un contenuto, ogni volta che facciamo una scelta per la nostra azienda o per il nostro business, dovremmo chiederci se rispetta la visione di chi siamo e di chi vogliamo diventare.
L’external resonance, invece, è la ricerca di una reazione significativa da parte degli altri, capace di superare l’aspettativa della reazione “media”. Tanti like sono un segnale debole, molti commenti sono un segnale più forte, ma risposte private che raccontano come il contenuto sia rilevante per la vita delle persone a cui parliamo sono esattamente quello che dovremmo cercare. Allo stesso modo, se avessimo un ristorante saremmo felici di avere un nuovo ospite, ma ancora di più di avere un ospite che parli bene di noi e consigli la nostra cucina ad altri.
Misurare, per ognuna delle nostre azioni, la resonance interna ed esterna è un ottimo inizio per un Futuro Preferibile in cui persone e organizzazioni possano cogliere nuove opportunità e creare valore, rimanendo fedeli a loro stesse ed entrando in relazione con altre persone con le quali stabilire un legame profondo e duraturo.
PAOLO
Naturalmente quelli che Adam Mastroianni chiama gli optimize guys storceranno il naso, diranno che non si può davvero misurare la risonanza, che è tutto troppo soggettivo per essere utilizzabile.
Ma il punto è proprio questo: spostare l’attenzione dalle misure puramente quantitative a quelle qualitative è un modo per prenderci la responsabilità di ciò che facciamo e non delegarla a degli strumenti che si presumono oggettivi. La misura qualitativa non ci dà risposte definitive, ma ci chiede di continuare a farci domande. E in questo modo impedisce alla misurazione di diventare un obiettivo in sé, tenendoci a riparo dalla legge di Goodhart.
Se avrà in mente la risonanza, un’organizzazione non perderà di vista l’obiettivo di parlare alle persone e di raccontare storie significative; un’università non perderà di vista l’obiettivo di trasmettere conoscenza; una scuola non perderà di vista l’obiettivo di formare buoni studenti; una persona non perderà di vista l’obiettivo di imparare, mettersi alla prova, cercare nuove sfide. L’unica misurazione efficace in futuro sarà quella che non si imporrà come un obiettivo, ma ci permetterà di scoprire obiettivi ambiziosi di crescita e trasformazione.
Visto che abbiamo parlato di risonanza, ci piacerebbe misurare meglio la nostra. Capire che valore ha quello che scriviamo per chi ci legge. Siccome però non vorremmo misurare questo valore con visite e impression, né tantomeno attraverso un paywall, vi chiediamo di scriverci, lasciarci un commento qui sotto, cercarci su Linkedin. Fateci sapere come vi risuonano le nostre parole!
Come disse anni fa l’innovatore musicista Gigi Tagliapietra “io qui ci suono”. Grazie 🙏
La vostra capacità di esplorare temi significativi e di offrire prospettive fresche e ponderate crea un legame autentico. Non è semplicemente un contenuto da consumare, ma una conversazione che si sviluppa e si evolve nel tempo. In un mondo in cui la superficialità spesso prevale, Futuri Preferibili è un faro di profondità e riflessione. Grazie per continuare a fornire un contenuto che va al di là delle metriche convenzionali e che realmente risuona con chi vi legge.