In questa newsletter raccontiamo i nostri Futuri Preferibili in tre mosse: partiamo da qualcosa che accade nel presente, prendiamo la rincorsa nel passato e facciamo un salto nel futuro. Non per prevederlo, ma per provare a indirizzarlo.
Noi siamo qui
Hai mai sentito l’espressione inglese Eat that frog?
Alcuni attribuiscono la sua origine a Mark Twain, che pare abbia detto:
“Mangia un rospo vivo come prima cosa al mattino e niente di peggio ti accadrà per il resto della giornata.”
In realtà, sembra che abbiamo iniziato ad attribuire la citazione a Mark Twain perché suona come qualcosa che potrebbe aver detto.
L'espressione è simile al nostro “ingoiare il rospo”. In italiano, però, ha un’accezione passiva, difensiva: accettare nostro malgrado le situazioni sgradevoli. In inglese invece ha assunto un significato attivo, propositivo: andarsi a cercare la situazione sgradevole come una prova da superare. E qualcuno l’ha rivendicata come un metodo per migliorare.
Così nel 2001 Eat That Frog! è diventato un libro in cui Brian Tracy spiega come affrontare i compiti sgradevoli ma importanti e diventare così più produttivi.
Il libro ha ispirato intere generazioni di formatori, motivatori e coach di produttività che hanno riempito Internet e gli scaffali delle librerie con articoli e corsi su come trovare le rane, condirle, cucinarle e spalancare la bocca per inghiottirne di più.
Ma perché mai dovremmo mangiare delle rane?
Flashback
Siamo ossessionati dalla produttività, ed è interessante ricostruire da dove viene questa ossessione.
Qualcuno ha detto che si tratta di un’ossessione vecchia come l’America, collegandola quindi in modo specifico alla cultura statunitense, al suo rapporto con il lavoro e con la realizzazione personale. Ma dal momento che questo tipo di cultura è penetrata in quasi tutto il mondo, nell’ultimo secolo la produttività è diventata un problema che riguarda tutti.
È stato Adam Smith, nel libro La ricchezza delle nazioni, il primo a distinguere tra lavoro produttivo - quello che trasforma la materia aumentandone il valore - e lavoro improduttivo. Mentre pare che Benjamin Franklin per primo abbia elaborato una serie di metriche per valutare quanto produttiva era stata la sua giornata. Anche se la sua misura della produttività era principalmente quanto bene era riuscito a fare, in che modo aveva contribuito a migliorare il mondo.
Il discorso sulla produttività è legato all’avvento delle macchine e all’automazione, che potenziano il lavoro umano e aumentano vertiginosamente le capacità produttive. L’aumento della produttività innalza la ricchezza complessiva in circolazione, e quindi migliora il tenore di vita delle persone.
Ciò che però la produttività tende a deteriorare è il rapporto tra chi lavora e il lavoro che svolge. L’automazione, infatti, non libera gli esseri umani dal lavoro, al contrario: li costringe a lavorare di più, e spesso in condizioni peggiori. Li lega in modo sempre più stretto alle esigenze della produttività, e li trasforma in una parte dell’ingranaggio, macchine essi stessi.
Questo è vero agli albori dell’era industriale, ed è vero nell’era digitale, in cui il mercato dei software per la produttività ha raggiunto un valori di circa 80 miliardi di dollari. La promessa dell’AI che genera più entusiasmo tra gli investitori, del resto, è proprio quella di incrementare ulteriormente la produttività. Non prendere il posto degli esseri umani, ma farli lavorare di più e meglio.
Nell’era del terziario avanzato e dei lavoratori della conoscenza lo stimolo della produttività non è più una questione di strumenti tecnologici. Il problema della produttività si sposta dal sistema al singolo individuo. E così fiorisce il business degli esperti, dei consulenti, dei guru che in sostanza parlano alle persone ripetendo tutti lo stesso messaggio: sei tu che devi superare i tuoi limiti e produrre di più.
La catena di montaggio era una soluzione di sistema che aumentava la produttività allo stesso modo per tutti. L’incitamento al self-improvement è una soluzione che chiede a ognuno di noi di inventare e implementare la propria catena di montaggio personale.
Dalle agende per il planning individuale, strumento best-seller già a fine Ottocento, fino alle app, il segreto dell’organizzazione e ottimizzazione del tempo è un problema degli individui. E spinge gli individui a competere gli uni contro gli altri.
Ed ecco che siamo tornati alle scorpacciate di rane, uno dei consigli preferiti dei guru della produttività. Un approccio che ha trasformato anche gli aspetti positivi della produttività - impiegare bene il tempo, individuare le priorità, darsi degli obiettivi e raggiungerli - in una corsa esasperata alla performatività a tutti i costi. Generando un’ondata di frustrazione e rifiuto del concetto stesso di produttività.
Fast forward
“L’individuo moderno vive nell'illusione di sapere ciò che vuole, mentre in realtà vuole quel che ci si aspetta che voglia”.
Così ha scritto lo psicanalista Erich Fromm.
Prova a farti questa domanda: che cosa desidero veramente?
Ora trova le parole giuste per rispondere. Pensa a qualcosa che non sia né troppo banale, né irrealizzabile. Qualcosa a cui dedicheresti una vita intera. Qualcosa che non sia già il desiderio di qualcun altro…
È incredibilmente difficile sapere cosa desiderare, vero?
Adam Mastroianni lo spiega in modo magistrale, quando racconta del periodo in cui faceva da advisor a studenti di prestigiose università americane. Quegli studenti, dice Mastroianni, passavano le loro giornate a fare ciò che gli avevano chiesto i genitori, o ciò che facevano tutti gli altri, o ciò che sembrava potesse procurargli un lavoro. Ma mai facevano qualcosa che gli piacesse veramente.
Avevano fatto sacrifici per entrare a Princeton e Harvard, e come ricompensa stavano ottenendo la possibilità di fare altri sacrifici. Iniziavano a sentire che forse qualcosa era andato storto, ma non sapevano cos’altro fare. Avevano represso così a lungo i loro veri desideri, che ora non sapevano dove andare a ritrovarli. Insomma, erano nella condizione ideale per il burnout, che è una parola per spiegare l’“indigestione di rane” alla quale molti di noi vengono sottoposti, spesso senza motivo.
Quando sentiamo che oltre alle rane non resta null’altro nel nostro lavoro o nella nostra vita, tendiamo a fuggire. La nostra cultura ama l’evasione, soprattutto come atto “performativo”. Lo dimostra il successo dei brand outdoor (su questo scriveremo ancora in altri numeri di Futuri Preferibili), ma anche la notiziabilità di fenomeni come le Grandi Dimissioni.
Qual è il problema, però, di questa evasione performativa? Lasciamo una gabbia solo per trovarci in un’altra, spesso costruita con le nostre stesse mani.
Prima lasciamo i nostri lavori per scappare dagli uffici. Poi ci creiamo nuovi lavori, scappando dalla libertà che abbiamo appena conquistato. Perché sotto la pressione della performance e della produzione, la libertà è impossibile: quale libertà può esserci per chi si mette in proprio, se resta schiacciato dal peso delle metriche e dell’ottimizzazione continua?
Crea contenuti. Scrivi una newsletter. Apri il tuo canale YouTube. Inizia un podcast. Così potrai guadagnare ciò che ti serve per vivere, e avere la libertà di fare ciò che vuoi. La promessa è esaltante, ma dopo l’entusiasmo iniziale arriva inesorabile la morsa dell’iper-produttività, che ti spinge a pubblicare con più frequenza, rivedere la forma, migliorare la SEO per ottenere più traffico e più like… Soprattutto, ti impone di guardare gli altri, quelli che performano meglio di te, rispetto ai quali ti sentirai sempre in difetto e quindi in obbligo di fare di più.
Questo ci porta a considerare un’idea — e un possibile Futuro Preferibile.
La vera libertà non consiste nel fare ciò che vogliamo, ma nel liberarci dalla competizione. Nessun lavoro, per quanto ideale possa sembrare, può eliminare completamente quel senso di inadeguatezza o improduttività che deriva dalla pressione competitiva. La vera soddisfazione non viene dall’essere autonomi, dal trovare un datore di lavoro migliore o dal raggiungere un perfetto equilibrio tra vita e lavoro. La chiave è cambiare il nostro atteggiamento verso il lavoro e la vita, perché questo è l’unico aspetto su cui abbiamo davvero controllo.
C’è questo video in cui Steve Jobs racconta benissimo una cosa: modelliamo la nostra vita in base a ciò a cui siamo abituati, a quello che ci hanno insegnato, alle cose che abbiamo già visto, alle cose che ci fanno sentire “inseriti” in un contesto sociale o lavorativo, alle cose che altri, nemmeno troppo più smart di noi, hanno deciso. Qualsiasi comportamento al di fuori di questo modello è invisibile per noi. Letteralmente, non lo vediamo. Non c’è spazio per il nuovo, l’inaspettato. E così si riducono infinitamente le possibilità di esplorare chi potremmo essere, chi vogliamo davvero essere.
La nostra ossessione per la produttività è l’estrema distrazione che ci impedisce di farci queste domande essenziali. Nemmeno Jobs, ai tempi di quel video, poteva sapere che avremmo avuto così tante rane da ingoiare che non ci sarebbe rimasto spazio per pensare ad altro.
Per questo dobbiamo imparare a riconoscere e ad approfittare dei pochi momenti che possiamo dedicare alla scoperta dei nostri desideri più profondi.
Ogni tanto la vita ci scuote con eventi che interrompono temporaneamente ogni preoccupazione quotidiana. A volte si tratta di eventi gioiosi, come la nascita di un figlio; altre volte sono dolorosi, come la perdita di una persona cara; altre volte ancora segnano dei passaggi di stato, come un cambio di lavoro.
Sono eventi che richiedono tutta la nostra attenzione, ci costringono ad adattarci a una nuova realtà. Una volta adattati, torniamo alla normalità e le preoccupazioni quotidiane riprendono il sopravvento. Ma prima che questo accada, possiamo sperimentare un breve momento di libertà dalla competizione e dalla produttività, che può rappresentare una possibilità di riorientarsi.
Abbracciare questa quiete, anche brevemente, può aiutarci a tornare alla vita quotidiana con una prospettiva rinnovata e un senso di radicamento più profondo.
Questo è l’augurio che facciamo a noi stessi e a tutti voi per il mese estivo che inizia. Che sia l’occasione per farci le domande che rimandiamo da troppo tempo, soprattutto l’occasione per chiederci: che cosa desideriamo veramente?
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Il futuro è dei ribelli – il manifesto di Matteo, ribelle di professione
Parola per parola – il manifesto di Paolo, scrittore prestato al branding e alla comunicazione
Saremo felici? – l’articolo che rompe il format classico di Futuri Preferibili per parlare di ciò che ci rende felici
Dall’io al noi – uno dei nostri numeri più belli sulla comunità, tema del quale scriviamo spesso
Come misureremo le nostre vite – l’articolo in cui ci interroghiamo su come misurare solo ciò che ci fa crescere davvero
Brand dal futuro #01: Cosmico – il numero che lancia il nostro format speciale sul branding
Bella prospettiva. Mi ricorda Byung-Chul Han che, ne “La società della stanchezza”, spinge il ragionamento della produttività (e della sua alienazione) ancora oltre: si tratta del (nuovo) modo in cui il capitalismo controlla le persone. Letteralmente spingendole (a differenza del “vecchio capitalismo”) a controllare se stesse, investire tutte le loro energie e non sentirsi abbastanza.
La sua conclusione però è cupa: la soluzione non può stare sul piano dell’individuo. Come tutte le grandi (e inedite) sfide che abbiamo davanti oggi, anche questa si può vincere solo recuperando la dimensione sociale e politica.
L’idea che il singolo possa cambiare è solo un altra modalità di controllo: genera azioni individuali inutili e di scarso impatto eccetto che come forma di frustrazione individuale che poi diventa disillusione e sconfitta.
Frammentati e isolati, saremo sempre troppo piccoli per cambiare il sistema
Mi viene in mente la "Last Lecture" di Randy Pausch, un professore che mi ha cambiato prospettiva, e che ha condiviso delle lezioni di vita incredibili nel suo ultimo discorso prima di morire.
Consiglio di guardare il suo discorso: la sua vita è stata davvero pazzesca.
PS: anche lui in un certo senso parla di… rane 😁
https://youtu.be/ji5_MqicxSo?si=Nw55wCQ6fRzLfvCR