In questa newsletter raccontiamo i nostri Futuri Preferibili in tre mosse: partiamo da qualcosa che accade nel presente, prendiamo la rincorsa nel passato e facciamo un salto nel futuro. Non per prevederlo, ma per provare a indirizzarlo.
Noi siamo qui
In una delle ultime puntate del podcast What Next, prodotto dal gruppo Publicis, il conduttore Rishad Tobaccowala ha ospitato Steve Harrison, autore del best-seller Can’t Sell Won’t Sell, che per primo ha messo in discussione l’autenticità della comunicazione purpose-driven.
L’ultimo libro di Harrison, di cui si parla nel podcast, è dedicato a una figura mitologica, per quanto meno celebrata di altre, della storia dell’advertising: Howard Gossage. Se David Ogilvy è stato i Beatles, e Bill Bernbach i Rolling Stones, dice Harrison, Gossage è stato i Velvet Underground della pubblicità.
In coda al podcast Tobaccowala chiede a Harrison: “che cosa direbbe Howard Gossage se risorgesse oggi e potesse vedere il panorama attuale della comunicazione?”.
Come prima cosa, dice Harrison, si chiederebbe: perché sono diventati tutti così seri? E poi farebbe una domanda ancora più radicale:
Perché tutto sembra fatto da una macchina, se il nostro obiettivo è connetterci agli esseri umani, influenzare le loro scelte e rendere la loro vita un po’ più facile?
Già, non avrebbe torto il vecchio Gossage: perché gran parte di ciò che facciamo oggi sembra così automatizzato e standardizzato? Perché abbiamo scelto di sacrificare la creatività sull’altare dell’algoritmizzazione della cultura e della comunicazione?
Flashback
I creativi dell’età dell’oro, coloro che hanno creato il mito di Madison Avenue, non hanno mai avuto un’idea particolarmente romantica del mestiere del pubblicitario. La pubblicità non era un’attività intellettuale o culturale, non aveva un valore artistico: l’unica cosa che contava era vendere. L’unico valore che i Mad Men erano disposti a riconoscerle era quello commerciale.
Anche quando ha intuizioni geniali il pubblicitario è un artista prestato al commercio, e la sua bravura si misura sempre in funzione di ciò che fa per il business. Tanto che il mestiere nel tempo si guadagna una reputazione non proprio lusinghiera, come ricorda il titolo del libro autobiografico di Jacque Séguéla: Non dite a mia madre che faccio il pubblicitario… lei mi crede pianista in un bordello.
Quando i grandi creativi del passato, come Gossage, parlano del valore della creatività, quindi, non parlano di un valore astrattamente artistico o culturale. La loro difesa della creatività dall’assalto della standardizzazione è legata all’idea che l’inventiva e l’immaginazione sono più efficaci di ogni “formula”. Più efficaci di ogni algoritmo, diremmo oggi.
Una cosa accomuna tutti i grandi creativi del Novecento: sono convinti che se la comunicazione diventa ripetitiva e uniforme, sempre uguale a sé stessa, perde forza e perde la capacità di servire le aziende e influenzare le vendite.
Del resto il concetto di creatività come lo intendiamo oggi, connesso alla comunicazione e al design, non nasce in ambito artistico, nasce in ambito industriale. Nel corso del Novecento la creatività è uno strumento che serve all’organizzazione industriale per andare oltre la standardizzazione e l’uniformazione degli output, e che aiuta le persone a sentirsi originali e a resistere a lavori sempre più alienanti.
Dentro processi che, per efficientarsi, si standardizzano, si comincia a valorizzare la creatività come il tipo di pensiero che può portare valore aggiunto a quei processi. E così la creatività diventa anche una forma di compensazione per professionisti che si sentono sempre più stretti nelle maglie dell’efficienza: siete ingranaggi, ma ingranaggi che possono essere creativi.
I pochi interventi teorici di Bill Bernbach - raccolti in italiano in un bel libro curato da Giuseppe Mazza - sono per lo più difese dell’intuizione creativa contro i tentativi di fare della creatività una scienza. Contro le equazioni per creare la pubblicità perfetta. Contro l’uso massiccio dei dati e delle analisi quantitative.
Basta leggere i titoli: Voi scambiate la tecnica per creatività (la lettera con cui nel 1947 Bernbach si dimette dalla Grey Advertising); Un’idea non è un’equazione (un discorso tenuto nel 1961 all’American Association of Advertising Agencies); Non si può misurare il talento (intervista pubblicata su “Advertising Age” nel 1965); I fatti non bastano (ancora parlando all’American Association of Advertising Agencies nel 1980).
Bernbach non voleva fare pubblicità “bella”. Voleva fare una comunicazione efficace per il business. Come aveva fatto per Volkswagen, trasformando un’azienda tedesca che faceva auto dalla forma assurda in un’icona del ventesimo secolo.
Fast forward
In che modo possiamo riattivare questa idea della creatività come forza che trasforma le organizzazioni e risolve i problemi del business? Come possiamo utilizzare tutti gli strumenti che abbiamo a disposizione per continuare a fare della creatività la forza che genera differenza e ci allontana dall’uniformazione?
Prima di tutto dobbiamo cercare di superare le dinamiche innescate dalla creator economy, che hanno trasformato il “creativo” in un “creator solitario”. Una macchina da contenuti che deve pubblicare con una frequenza innaturale, deve costantemente attirare l’attenzione, è ossessionato dalla visibilità e dall’accettazione, terrorizzato dall’apparire fuori luogo e dal sembrare cringe.
Questa pressione non può che portare a una standardizzazione dei contenuti. L’antidoto è tornare a creare alleanze tra creativi, ricostruire comunità al di là delle communities da monetizzare, inventare nuove piattaforme e nuovi sistemi di distribuzione per parlare a tanti pubblici diversi, magari più piccoli ma davvero interessati ai nostri messaggi, e quindi più disposti a recepire contenuti significativi.
Quando, nel podcast What Next, Tobaccowala e Harrison si chiedono “come reagirebbe oggi Gossage sapendo che l’AI potrebbe sostituire il lavoro dei creativi?”, la risposta che si danno è sorprendente.
Gossage direbbe una frase del genere:
Ma come, i contenuti e la pubblicità degli ultimi quindici anni non sono già stati creati dalle macchine?
Abbiamo passato l’ultimo anno a dirci che l’AI cambierà per sempre il nostro lavoro, che in futuro dovremo diventare tutti prompt engineer e orchestratori di macchine. Reid Hoffman e Allie Miller hanno pubblicato un video in cui affrontano una serie di temi di cultura generale parlando con 6 GPT diversi. Le AI ascoltano la conversazione tra i due umani, e intervengono nella discussione. La conversazione è evidentemente “sceneggiata”, ma rappresenta un futuro plausibile. Un futuro in cui però le macchine potrebbero a un certo punto continuare a parlare tra di loro facendo a meno degli umani.
E allora forse ChatGPT e le sue sorelle sono arrivate per aprirci gli occhi, per farci capire che ci siamo trasformati già in delle macchine. Forse sono arrivate per ricordarci che non dovremmo tentare di fonderci con loro, ma provare a rimarcare la nostra differenza. E chiederci: in che cosa abbiamo trasformato questo mondo? Un mondo in cui siamo più preoccupati di “stare dentro”, di seguire il flusso, di compiacere l’algoritmo, anziché cercare il modo di uscire dalla massa.
Gossage viene definito da Harrison il primo ad aver pensato una comunicazione interattiva, molto prima di Internet: aveva trasformato gli annunci in strumenti di engagement con cui manipolava il mezzo della stampa e ne estendeva il potenziale, per creare cose nuove e stimolare un’azione da parte di chi leggeva.
Allo stesso modo, la sfida per noi è riuscire a manipolare le nuove tecnologie per piegarle alle esigenze creative umane. Non ha senso rifiutare l’AI e limitarsi a dire che non serve a niente. Ma non ha senso nemmeno pensare che la sua unica funzione sia scrivere post più efficaci, produrre più contenuti, disegnarli in modo che facciano più like o siano più SEO compliant. Questo non significa supportare la creatività, ma piegarla all’esigenza delle macchine.
Perché somigliamo tutti a delle macchine, se il nostro obiettivo è parlare con le persone? La domanda che Harrison attribuisce a Gossage sarà sempre più decisiva in un futuro in cui le macchine parteciperanno attivamente alla conversazione, e spesso ci troveremo di fronte a una comunicazione fatta da macchine per le macchine.
La creatività del futuro deve usare questa tecnologia in modo inaspettato, per fare cose molto diverse da quelle che abbiamo fatto nelle ultime decine di anni. In un suo intervento Bernbach spiega perché la creatività libera e contro-intuitiva, la creatività che utilizza le tecniche spiazzanti dell’arte, è estremamente concreta:
Noi paghiamo circa 50mila dollari per una pubblicità su una pagina di Life Magazine. Poi guardi le persone leggere le riviste in metropolitana saltando quelle pagine, 50mila dollari per ogni pagina saltata, e cominci a capire perché dico che è estremamente concreto usare l’arte per attirare l’attenzione delle persone, farle guardare e ascoltare.
Le pagine saltate dalle persone in metropolitana sono diventate i video skippati con impazienza, i banner invasivi, le sponsorizzazioni onnipresenti, i copy automatici e inverosimili. Riuscire a riportare l’attenzione delle persone sui messaggi delle organizzazioni è il compito della creatività: per farlo, dovrà cambiare in profondità il modo di creare messaggi e di distribuirli.
E quindi tornare a elaborare idee non standardizzabili, imprevedibili e divergenti. Idee che non derivano dai dati, ma li sfidano. Che non parlano come gli algoritmi, ma li spiazzano. Che non si riducono a formule preconfezionate, ma inventano le regole di un nuovo gioco. Non solo perché le idee generate in questo modo sono più belle e più divertenti, ma perché sono le sole che permetteranno alle organizzazioni di distinguersi e creare valore.
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Bell'edizione e grazie per aver citato Gossage. A proposito, c'è anche un volume dell'erede di Bill Magazine, oggi collana editoriale, intitolato "L’uomo che inventò il verde – Howard Gossage" di Paolo Egasti.