In questa newsletter raccontiamo i nostri Futuri Preferibili in tre mosse: partiamo da qualcosa che accade nel presente, prendiamo la rincorsa nel passato e facciamo un salto nel futuro. Non per prevederlo, ma per provare a indirizzarlo.
Noi siamo qui
È noto che la pandemia, il lockdown e le successive turbolenze hanno accelerato la trasformazione del lavoro. In uno spazio di tempo brevissimo abbiamo tutti imparato a lavorare in modo diverso, e abbiamo cominciato a chiamarlo smart working.
Poi qualcuno è arrivato a dirci che non si chiama così, nel resto del mondo l’espressione smart working non ha alcun significato, quindi sarebbe meglio parlare di remote working. Poi qualcun altro ci ha detto che remote è troppo, non esageriamo, sempre meglio la via di mezzo: è hybrid il concetto giusto.
La verità è che nessuno di questi aggettivi descrive bene che cosa è accaduto al mondo del lavoro. L’aggettivo corretto sarebbe unbundled. Il lavoro si è spacchettato, e per questo motivo ora è possibile distribuirlo come mai era stato possibile prima.
Task e responsabilità che in precedenza erano detenuti da una stessa persona, in uno stesso luogo, ora possono essere affidate a persone diverse, in geografie diverse, oppure possono essere delegati alle macchine.
Flashback
Matteo ricorda ancora quando, nel 2012, imbevuto di cultura startuppara californiana, ha fondato con altre persone un’azienda di prodotto digitale, e nella sua attività di networking ha conosciuto Ivan Botta.
Ivan era socio e amministratore delegato di Enter, un Internet Service Provider milanese, che aveva sede in un’ex fonderia artistica di 1500 metri quadrati in zona viale Monza / Gorla.
Matteo racconta a Ivan la sua idea imprenditoriale, ma a Ivan interessa più la sua storia e il suo modo di lavorare: decide di mettere a disposizione di Matteo delle scrivanie, la connessione internet e degli spazi comuni. In cambio chiede solo libertà di confronto e scambio di idee.
Inizia così la storia di Login: scrivania dopo scrivania nasce un grande spazio di coworking, che per anni è stato un punto di riferimento per tanti professionisti della tecnologia e del digitale.
Perché Ivan ha trasformato gli uffici della sua azienda in uno spazio di coworking?
In quegli anni Enter stava realizzando la sua infrastruttura europea per il cloud computing.
Convincere le aziende a migrare le proprie applicazioni nel cloud, e per giunta in un cloud italiano, non era affatto semplice. Era difficile far capire perché migrare al cloud era più conveniente, efficiente e sicuro che tenersi le proprie applicazioni sul server in azienda.
Così Ivan fa quello che noi diciamo spesso di fare in questa newsletter.
Se il futuro che vogliamo vedere realizzato appare troppo lontano, la cosa migliore da fare è cercare di avvicinarlo alle persone usando riferimenti culturali che tutti conoscono e comprendono, in modo che possano capirlo meglio, e quindi sceglierlo.
Il coworking non era nient’altro che una metafora fisica del cloud computing.
Perché pagare per l’affitto di un intero ufficio, quando puoi pagare solo per le scrivanie che utilizzi, e solo quando ti servono? Proprio come il cloud, il coworking garantisce la flessibilità di scalare velocemente, aggiungendo o togliendo scrivanie in base alle necessità. I costi di setup e manutenzione sono azzerati, e aziende e professionisti possono preoccuparsi soltanto di fare bene il proprio lavoro.
Il completamento della storia avviene negli anni successivi, quando grazie a Zoe Romano e Costantino Bongiorno nasce WeMake, il makerspace di Milano, in un capannone dalla parte opposta della strada rispetto a Login. La digital fabrication che si fa a WeMake è una metafora dell’automazione, che con le stampanti 3D e le macchine a controllo numerico diventa accessibile a tutti, e quindi abilita nuovi modelli di distribuzione.
Dietro il movimento dei maker c’era l’idea dell’Internet della logistica teorizzata da Jeremy Rifkin: non è più necessario produrre centralmente un bene e distribuirlo nel mondo, quando possiamo servirci delle macchine per produrlo nel punto più vicino a dove viene richiesto.
Le stampanti 3D portano la produzione più vicino alle persone che useranno il prodotto. Allo stesso modo, il cloud computing distribuisce le risorse in modo che siano servite dal punto più vicino all’utente. Questo modello di distribuzione garantisce anche maggiore sicurezza, perché in caso di rottura di un punto di distribuzione i dati possono essere serviti da altre zone.
La mossa fondamentale che permette di distribuire la produzione è separare la manifattura dal design.
Spacchettare il prodotto, che fino ad allora era un tutt’uno di design e manifattura. Nella visione di Rifkin il prodotto diventa design, che può essere trasformato in manufatto ovunque nel mondo, dove è più conveniente, anche in quantità minime, a costo marginale tendente a zero. È qualcosa di molto più importante del “made in China, designed in California” di Apple; quella è delocalizzazione. Questo è unbundling, che abilita la distribuzione totale delle varie fasi di creazione di un prodotto.
È la fabbrica, spacchettata e distribuita.
Fast Forward
In questo contesto, la domanda per costruire il futuro preferibile del lavoro è: si può fare con l’organizzazione del lavoro quello che il software ha già fatto con intere industry, cioè aprirle, spacchettarle, distribuirle e automatizzarle?
Per rispondere alla domanda faremo esattamente il contrario di quello che ha fatto Ivan. Lui ha usato delle metafore fisiche (l’ufficio e la fabbrica) per spiegare un concetto astratto, legato al software; ma poiché oggi la tecnologia è ben radicata nella nostra società e noi tutti siamo consapevoli degli impatti che ha sulla nostra vita e sul business, noi useremo una metafora software per parlare di qualcosa di molto concreto, come il lavoro che facciamo tutti i giorni.
Pensate a Wikipedia. La più grande e affidabile enciclopedia del mondo viene scritta ogni mese da decine di migliaia di contributor volontari. Questo è possibile grazie a:
Apertura: il processo di scrittura e di editing è accessibile a tutti.
Standardizzazione: per scrivere ed editare le voci bisogna aderire a degli standard tecnici, operativi ed etici.
Autoselezione: ognuno può decidere liberamente se contribuire, e a che cosa.
Collaborazione: apertura, standardizzazione e autoselezione permettono alle persone di collaborare e partecipare insieme alla scrittura e all’editing delle voci.
Un processo monolitico, che prima era affidato a equipe ristrette di esperti e messo sotto la supervisione di pochissime persone, è stato spacchettato nelle sue componenti e reso accessibile.
Ora pensate al lavoro. Le sue componenti, storicamente impacchettate all’interno delle organizzazioni, sono:
Risultati
Problemi
Processi
Task
Skill
Wikipedia vuole soddisfare la ricerca d’informazioni dei propri utenti (il risultato); per farlo deve creare un’enciclopedia grande, completa e aggiornata (il problema); così costruisce una piattaforma software (il processo) che orchestra la scrittura e l’editing delle voci dell’enciclopedia (i task) servendosi della competenza (le skill) di decine di migliaia di contributor.
Questa strategia di spacchettamento può essere applicata all’organizzazione del lavoro: ogni azienda vuole raggiungere dei risultati e per farlo deve affrontare dei problemi. Attraverso un software che gestisce i processi è possibile fare plug in di lavoratori esterni all’azienda, che liberamente scelgono il task al quale dedicarsi, applicando le loro skill.
Non si tratta soltanto di efficientare il lavoro e ottimizzare i costi. La tensione verso un modello distribuito è alimentata da un un movimento sempre più pressante che riguarda la trasformazione delle organizzazioni.
Il futuro delle organizzazioni distribuite non è la gig economy. Le nostre aziende non saranno tutte delle Uber. Uber ha scelto di automatizzare e far gestire a un’interfaccia la parte alta del servizio e di servirsi della distribuzione del lavoro per i task più bassi, short term, per i quali servono skill di basso livello delle quali c’è abbondanza e che per questo tendono alla commodity e vengono remunerate poco.
Il futuro non sarà così perché noi possiamo scegliere che cosa distribuire e che cosa automatizzare.
Per ogni Meta, che ci vuole tutti creatori di contenuti e non si sognerebbe mai di cancellare dei contenuti di basso livello o persino disinformativi dalla piattaforma (perché ogni contenuto serve a educare l’algoritmo e può essere monetizzato), ci sarà una Wikipedia che costruisce un sistema in cui solo pochi sono editor, e in cui questi editor hanno il potere di cancellare ciò che non è conforme agli standard della piattaforma.
Anziché pensare a Uber, pensiamo all’App Store.
Per Uber i driver/rider sono fornitori commodified; per l’App Store gli sviluppatori sono partner.
In Uber i driver/rider sono in fondo alla catena di creazione del valore; Apple prende gli sviluppatori (che in un’azienda software monolitica stanno in fondo alla catena di creazione del valore) e li porta in alto, al pari dei suoi clienti, trasformandosi in una piattaforma che connette gli uni con gli altri e crea valore per entrambi.
La parola giusta per descrivere i network lavorativi del futuro non sarà più nemmeno organizzazione, ma community.
Per funzionare, però, le organizzazioni-community del futuro dovranno avere tre elementi imprescindibili, che abilitano l’intera trasformazione.
Dovranno avere un brand forte. Usiamo la parola brand per indicare una storia convincente, una proposta di valore che attragga le persone: non solo per convincerle a comprare i nostri servizi o prodotti, ma per convincerle a partecipare al nostro lavoro.
Adesso va di moda una cosa che si chiama employer branding, ma non ha niente a che vedere con quello di cui parliamo. Le organizzazioni di oggi hanno un’idea “proprietaria” dei dipendenti, in un certo senso li possiedono: infatti si impegnano per fare talent acquisition (comprarli) e talent retention (trattenerli). Sono le stesse misure e lo stesso lessico che usiamo per il mercato. Ma con l’unbundling del lavoro l’ownership delle skill è in mano solo alle persone che lavorano, che quindi vanno coinvolte in un progetto, non comprate. Coinvolte per le skill e il tempo necessari, non per sempre.
L’organizzazione spacchettata per eccellenza, la cinese Haier, non a caso usa la parola rendanheyi per definire il suo modello, che significa azzerare la distanza tra chi è dentro e chi è fuori l’azienda, tra chi produce e chi consuma.Dovranno diventare un network. Riprendendo la metafora del cloud, dovranno abbandonare le loro architetture monolitiche e adottare un’architettura a microservizi. Non ci sarà più nessuna distinzione tra chi sta dentro l’azienda (i dipendenti, chi ha un contratto a tempo indeterminato) e chi sta fuori. Le organizzazioni saranno degli orchestratori di problemi e task, ai quali persone dentro e fuori l’organizzazione potranno applicare le loro skill per ottenere i risultati desiderati.
Dovranno dotarsi di un sistema operativo aperto anche ai contributori esterni. Immaginiamo, per usare un’altra metafora software, l’organizzazione come iOS, con le sue linee guida, gli standard accessibili a chiunque voglia entrare nell’App Store. Ogni applicazione è una catena di task che servono a risolvere i problemi degli utenti e a dare loro ciò che desiderano. Alcune di queste applicazioni/task vengono realizzate con forza lavoro interna (le app di Apple), altre grazie agli sviluppatori esterni, che fanno parte della stessa organizzazione-community estesa.
Il new normal che ci eravamo promessi durante la pandemia somiglia in modo preoccupante alla normalità di prima. L’unica cosa che è cambiata veramente è che ci siamo accorti che il lavoro può essere spacchettato, e quindi può essere distribuito ovunque e a chiunque nel mondo, e automatizzato.
Cambiare il modo in cui lavoriamo è l’ultimo tassello che manca al compimento della digital transformation, la sfida più grande del nostro tempo. Come farlo è una decisione che, nonostante tutto, è ancora una volta nelle nostre mani.
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