In questa newsletter io e Paolo raccontiamo i nostri Futuri Preferibili in tre mosse: partiamo da qualcosa che accade nel presente, prendiamo la rincorsa nel passato e poi facciamo un salto nel futuro. Non per prevederlo, ma per provare a indirizzarlo.
Andiamo?
Noi siamo qui
Terry Smith, fondatore e chief executive del fondo di investimento Fundsmith, un anno fa accusava Unilever (di cui è tra i principali investitori) di esagerare con lo sfoggio di virtù pubbliche.
Con la campagna Real Beauty lanciata da Dove nel 2004, Unilever è stata tra i pionieri della comunicazione fondata sul purpose, ovvero quel motivo profondo che giustifica l’esistenza del brand, oltre il profitto economico.
Secondo Smith, però, mettendo troppa enfasi sull’impegno sociale di tutti i propri brand, la grande multinazionale rischia di perdere credibilità, banalizzando il purpose e trasformandolo in un ripetitivo schema di marketing.
Davvero è necessario dire che vendendo maionese stiamo combattendo la fame nel mondo?
A chi gli obietta che, con la sua maionese solidale, il brand Hellmann’s è cresciuto bene, Smith ha risposto in un’intervista più recente: non abbiamo prove che il brand non sarebbe cresciuto allo stesso modo senza il purpose. Questo tipo di ragionamento confonde una semplice correlazione con il rapporto di causa ed effetto.
“Che io ricordi, il sapone serve per lavarsi”, ironizza Smith nella stessa intervista. Ma il brand Lux, anch’esso appartenente a Unilever, dichiara che i suoi prodotti servono a “ispirare le donne a innalzarsi al di sopra dei quotidiani giudizi sessisti, ed esprimere la loro bellezza e femminilità senza doversi scusare”.
A cosa serve, si chiede Smith, che un’azienda prenda una posizione del genere? E in che modo poi può mantenere una promessa di questa portata?
Anche il capo della comunicazione e corporate affairs di Unilever ha ammesso che negli anni l’azienda ha lavorato sul purpose isolandolo da altre componenti, come le strategie di crescita e di innovazione, la ricerca sui prodotti e la politica dei prezzi, l’affidabilità e la responsabilità rispetto alle proprie affermazioni, a cui invece dovrebbe essere strettamente legato.
A questo punto viene da chiedersi: cosa sta succedendo? Il purpose, uno dei concetti a cui le aziende avevano affidato il tentativo di diventare socialmente e culturalmente rilevanti, sta già passando di moda? È diventata l’ennesima buzzword di cui ci dimenticheremo presto?
Oppure è ancora capace di orientare il business verso una nuova idea di economia il cui obiettivo non siano crescita infinita e profitto, ma il prosperare delle persone, in armonia con l’ambiente?
Flashback
Più di 200 anni fa Benjamin Franklin suggeriva, nella sua quinta lezione sulla condotta aziendale, che un’azienda può “fare bene facendo del bene”.
Per anni però il rapporto tra crescita e valore sociale del business è rimasto ambiguo, oscillando tra alleanza e contrapposizione.
A risolvere la questione ci ha pensato nel 1970 Milton Friedman. In un’analisi del concetto di responsabilità sociale del business pubblicata sul New York Times, Friedman concludeva che le aziende hanno una e una sola responsabilità sociale: usare tutte le proprie risorse per aumentare i profitti, impegnandosi al massimo in una competizione onesta, aperta e leale.
Crescere, crescere, crescere: questo è stato il mantra dell’economia fino almeno alla crisi del 2008.
Nel 2011 due docenti della Harvard Business School, Michael Porter e Mark Kramer, hanno riaperto la questione scrivendo l’articolo Creating Shared Value, How to reinvent capitalism—and unleash a wave of innovation and growth. L’articolo fa chiarezza sulla connessione tra progresso sociale e successo economico, sfruttando una distinzione tra mezzi e fini che oggi tendiamo a dimenticare.
Il profitto, dicevano, è un mezzo al servizio del fine di creare valore condiviso. Solo creando valore condiviso le aziende avrebbero potuto rilanciare il proprio ruolo di vettori della crescita e dell’innovazione, dando forma a una nuova idea di capitalismo in grado di riconquistare fiducia agli occhi della società, dopo il crollo di credibilità dovuto alla crisi globale.
Nel 2012 l’economista inglese Kate Raworth pubblica il suo celebre diagramma a ciambella per introdurre un nuovo modello economico che equilibra i bisogni essenziali delle persone con le necessità del pianeta.
Raworth sostiene che, troppo concentrati sui flussi di denaro e sull’analisi matematica, i modelli economici classici ignorano i contesti su cui l’economia agisce: la vita delle persone, la società, la cultura, e l’ecosistema.
Per questo c’è bisogno di modelli diversi in grado di sostituire all’ideale impossibile della crescita infinita l’idea di prosperare in equilibrio con la natura e gli altri esseri umani.
Ma bisogna arrivare al 2018 per capire da dove nasce l’ossessione delle aziende per il purpose.
In quell’anno Larry Fink, CEO di BlackRock, scrive nella sua lettera annuale ai CEO delle principali aziende del mondo che le organizzazioni non dovrebbero più occuparsi soltanto di business. Ma sono chiamate ad affrontare questioni ambientali, sociali e politiche, a provvedere alla crescita sostenibile, a mettere tra i propri obiettivi la prosperità e la crescita dei cittadini.
Perché?
La crescente incertezza nei confronti del futuro, unita all’incapacità delle istituzioni di dare risposte convincenti, fa sì che sempre più persone si rivolgano alle aziende chiedendo loro di prendere una posizione sulle più pressanti questioni di interesse pubblico. Di uscire dai confini del mercato, per prendere un posto chiaro nella società.
Le aziende si trovano così di fronte alle pressioni che provengono dalle persone, dalle associazioni, dalle comunità locali.
Ma è la pressione della comunità finanziaria a metterle davvero in agitazione.
Fink è stato chiaro: d’ora in avanti gli investimenti si orienteranno verso le aziende che avranno un ruolo per la comunità, si impegneranno a ridurre il proprio impatto ambientale, lavoreranno per la diversità e l’inclusione, si occuperanno di come far crescere le proprie persone.
Ora che glielo chiede la finanza, nessuna azienda potrà fare a meno di prendere posizione. Se mettiamo l’articolo di Friedman e la lettera di Fink uno di fianco all’altra, abbiamo un quadro abbastanza chiaro di quanto l’economia sia in grado di influenzare le scelte collettive in materia di politica, ambiente, cultura e società.
Fast forward
È così che ogni azienda del mondo ha cominciato a ragionare sul proprio scopo. Una bella opportunità di business per il mondo della consulenza: nelle aziende cominciano a circolare sondaggi in cui all’improvviso diventa evidente che quasi tutti i consumatori, soprattutto millennial e Gen Z, dicono di preferire organizzazioni con un purpose chiaro, sono più inclini ad acquistare i loro prodotti e a fidarsi di ciò che comunicano, e così via…
Forte di questi sondaggi, anche il marketing delle aziende si convince che il purpose sia un modo per far crescere il valore del brand e i ricavi dell’azienda. Una specie di formula magica: il purpose non costa niente, e ci fa vendere di più!
Tutto bene dunque, no? No.
È l’inizio della fine.
Accade così che un’azienda come Unilever si spinge ad applicare in modo eccessivamente schematico il modello del purpose a tutti i suoi 400 brand, ignorando il contesto. E mentre l’americano medio perde il lavoro e fatica a pagare le bollette, quale sarà la sua reazione nell’apprendere che la maionese che ha in frigo si impegna per ridurre lo spreco di cibo?
L’iper-focalizzazione sul purpose sta rendendo i brand distaccati e narcisisti, preoccupati più di loro stessi che di ciò che vogliono le persone. Le aziende competono su chi definisce il purpose o i valori migliori, senza capire che al pubblico non importa nulla di tutto ciò. E siccome il purpose viene comunicato “a parole”, spesso c’è un enorme gap tra quello che le aziende raccontano di loro e quello che effettivamente fanno.
Insomma, finché il focus del purpose restano la pubblicità o il marketing, anziché il business e i suoi effetti profondi sulla società, stiamo semplicemente creando delle distrazioni.
Ed eccoci finalmente al nostro futuro preferibile.
Noi crediamo che il purpose sia un potentissimo faro per orientare la strategia e il business delle organizzazioni del futuro. Ma le aziende devono iniziare ad approcciare la questione in un modo totalmente diverso:
Abbandoniamo l’idea che lo scopo di definire un purpose sia fare in modo che le persone si interessino al brand. Al contrario, il purpose deve essere la dimostrazione del fatto che il brand si interessa alle persone.
Parliamo di ciò che importa alle persone, non di ciò che importa alle organizzazioni. Allontaniamo le luci dal brand e abbracciamo l’idea che i veri protagonisti della storia sono sempre le persone. Non dobbiamo costruire un mondo perfetto nel quale invitarle a entrare, ma allearci con loro per diventare migliori, e crescere su ogni piano – sociale, economico, politico, culturale.
Capiamo che il purpose non è necessariamente una causa da perseguire, anzi: bisogna scegliere di parlare di una causa se e quando è incorporata nel credo dell’organizzazione e a essa corrispondono azioni concrete – vedi l’esempio eclatante di Patagonia. Viceversa, meglio adottare un approccio sociale o culturale: interroghiamoci su quali sono i principi e i valori che rendono unica un’organizzazione, e la connettono alle persone e a tutti i potenziali stakeholder a cui si rivolge.
Smettiamo di volerci allinare alle aspettative della comunità finanziaria o alla pressione sociale. Esercitiamoci a trovare un punto di vista unico sul mondo. Non basta più parlare di ambiente, sostenibilità, inclusione… Queste sono cose che dovrebbero essere scontate. E quel che è peggio è che ne parlano tutti, molti anche a sproposito, con la terribile conseguenza che parole belle e importanti si sono svuotate di significato. Cerchiamo parole nuove, uniche, che appartengano solo a noi e possano definire il nostro linguaggio.
Passiamo dallo storytelling allo storydoing: trasformiamo cioè un set di valori in un progetto strategico, fatto di azioni concrete.
Soprattutto, togliamoci dalla testa che lo scopo del purpose sia far crescere il business. Come dimostrano le ricerche, accade quasi sempre, ma è solo un (bellissimo) effetto collaterale. L’unico scopo del purpose è il purpose. E organizzazioni costruite su un purpose che rispetti questi punti hanno davvero il potere di trasformare il mondo per il meglio e spingerlo in avanti.
Insomma, interpretandolo come una moda e una leva di marketing tra le altre, ci siamo rotti il purpose. Ora che alcune voci critiche cominciano a metterlo in discussione, abbiamo la grande occasione di ricostruire il suo significato.
Il purpose è morto, viva il purpose!