In questa newsletter raccontiamo i nostri Futuri Preferibili in tre mosse: partiamo da qualcosa che accade nel presente, prendiamo la rincorsa nel passato e facciamo un salto nel futuro. Non per prevederlo, ma per provare a indirizzarlo.
Noi siamo qui
Nel weekend si sono tenute le elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo, e nelle settimane che le hanno precedute abbiamo assistito a una capillare campagna di esortazione al voto promossa dalle stesse istituzioni europee.
Vota, questo era il messaggio della campagna. Non importa che voti questo o quel partito, ma vai a votare. In Europa questa è quasi una novità - il Parlamento Europeo ci lavora sistematicamente da qualche anno - ma negli Stati Uniti le campagna di supporto al voto sono una consuetudine, che spesso vede protagonisti anche i brand.
Queste campagne diventano necessarie perché l’astensionismo e il mancato accesso al voto negli Usa è un problema strutturale, e in Europa lo sta diventando. L’affluenza alle urne in Italia dal 1946 è in calo costante, un calo che è diventato drastico negli ultimi anni.
I poveri votano sempre meno, e non solo in Italia: le loro priorità sono altre, la politica è spesso troppo lontana dalla loro realtà quotidiana, e raramente è sentita come una possibile soluzione ai problemi. Lo stesso accade alla generazioni più giovani, che in media sono scarsamente informate sulle elezioni, non hanno tempo o non vogliono aggiornarsi, e sono più concentrate sugli studi e sui propri percorsi personali.
In generale nella cittadinanza c’è un senso diffuso di impotenza, c’è la convinzione strisciante che un voto, qualunque voto, non cambierà lo status quo, e l’affluenza alle elezioni europee di ieri, nonostante la campagna di invito al voto, conferma questo sentimento.
Cosa ci dice tutto questo sulla situazione delle nostre comunità?
Flashback
La partecipazione alla vita collettiva si è indebolita in tutti i suoi aspetti, e lo stato di sofferenza della democrazia non è che uno degli effetti di questo indebolimento.
La cultura degli ultimi decenni ci ha insegnato a pensare prima come individui, e poi come collettività; prima come clan o nazioni, e poi come comunità umana. E questa cultura ha trovato un’accelerazione e un consolidamento quasi definitivo nel periodo della pandemia, in cui l’isolamento è diventato la norma sociale. Con conseguenze politiche di cui ancora stiamo elaborando la portata.
Anziché rafforzare la solidarietà reciproca - come credevamo potesse accadere nei momenti più duri della pandemia - l’isolamento sociale ha rafforzato l’idea che dobbiamo sempre cavarcela da soli. Che i bisogni e gli interessi individuali vengono sempre prima di tutto.
Invece di considerare le possibilità di un mondo interconnesso, invece di condividere le risorse, invece di imparare ad affrontare insieme i problemi e a prevenire i rischi, abbiamo alimentato l’istinto a tenerci tutto per noi, sia come individui, sia come Paesi – rafforzando i confini nazionali, alzando i muri, diffondendo diffidenza e ostilità.
Siamo isolati, e ci sentiamo soli. E questa condizione si riflette nel modo in cui viviamo la politica.
Hannah Arendt nell'ultimo capitolo di Le origini del totalitarismo sostiene che la solitudine è la condizione che rende possibile il totalitarismo e il terreno comune di ogni terrore. L’isolamento è l’incapacità di agire insieme agli altri, e secondo Arendt questa incapacità lascia campo aperto all’ascesa dei poteri autoritari e personalistici. L’isolamento rende le persone impotenti, e quindi più facilmente assoggettabili.
D’altra parte le forme assunte dalla tecnologia rischiano di amplificare questa condizione. Perché la comunicazione virtuale tecnicamente ci connette con gli altri, ma sempre attraverso connessioni fortemente strutturate, che stanno dentro canali e framework molto precisi. Non ci connette per caso, non ci fa incontrare sconosciuti, non ci costringe a fare nuove scoperte ed esperienze.
Il tragitto sui mezzi pubblici casa-lavoro, la convivenza forzata con i colleghi di ufficio e la pausa caffè con persone che hanno idee, posizioni, pensieri diversi dai nostri… tutto questo per molti è soltanto un ricordo. Tutte queste esperienze informali sono state sostituite da interazioni a distanza molto più controllate. Con la conseguenza che siamo sempre più ristretti e isolati nelle nostre bolle sociali e il nostro senso comune si deteriora.
Non siamo più costretti a stare fisicamente in una stanza con altre persone, con cui dover discutere per trovare un accordo, una posizione comune, facendo valere le nostre opinioni. Possiamo sottrarci: come in un meeting su Meet o Teams, è facilissimo abbandonare, disconnettersi, rinunciare. E uscire non comporta nessun imbarazzo né barriera fisica: basta un clic, basta andarsene al mare.
Ma da dove viene tutto questo isolamento?
Una risposta potente e provocatoria è stata data da Allie Volpe in un articolo pubblicato su Vox.
Quando abbiamo industrializzato il concetto di self-care, abbiamo iniziato a ripeterci “stare bene dipende soltanto da te”, abbiamo messo ossessivamente il sé al centro dell’universo mentale e sociale, ci siamo condannati a vivere in un mondo senza finestre, e ci siamo ritrovati soli.
L’articolo contiene una serie di riferimenti a studi e ricerche scientifiche che evidenziano come l’isolamento è legato alla depressione, alla mortalità precoce, a una scarsa qualità del sonno, alla compromissione delle funzioni cognitive, a malattie cardiovascolari e a un aumento del rischio di ictus e malattie cardiache.
La solitudine collettiva non è causata da un singolo fattore a livello globale, ma è piuttosto il risultato di una combinazione di elementi come l’uso continuato degli smartphone, i social media, l’aumento delle fonti di ansia e depressione, la disuguaglianza economica, il materialismo e l’eccessiva frenesia della vita moderna. Ironia della sorte, una pratica concepita per proteggerci dai disagi del mondo - il self-care, così com’è inteso oggi - sembra averci distanziato gli uni dagli altri, incoraggiando la solitudine anziché la connessione.
Le aziende ci hanno messo del loro, e ne abbiamo già parlato. Quando per risolvere problemi come la disuguaglianza di genere, che richiederebbero cambiamenti sociali strutturali, incoraggiano le donne ad avere self-confidence, stanno perpetrando questa ideologia individualista.
E questo fa sentire le persone costantemente inadeguate, fa perdere loro la fiducia negli altri, le rende distaccate e sospettose nei confronti dei propri vicini, delle comunità e delle istituzioni.
La mancanza di un senso di appartenenza sociale ha un duplice effetto:
ci scollega dalla politica, aumentando l’astensionismo;
ci spinge verso posizioni estremiste o populiste, così che il dibattito pubblico diventa terreno fertile per i personaggi e i partiti politici che cercano di seminare dissenso e confusione (e, nonostante gli sforzi, sono difficili da ignorare).
Un elettorato isolato è un elettorato disimpegnato. Chi detiene il potere (politico o economico, come i tecnocrati delle piattaforme) ha tutto l’interesse a mantenerci separati, concentrati su noi stessi e distolti dalle questioni collettive.
Fast forward
Esiste una ricetta per sfuggire all’ossessione individualista?
Prima di tutto, come suggerisce l’articolo di Vox, bisogna ridefinire il concetto di self-care.
Nessuno di noi basta a se stesso o a se stessa: prenderci cura di noi è un atto influenzato dal supporto degli altri.
La comunità stessa è una forma di tutela e cura degli individui. Siamo più felici quando passiamo il tempo con gli amici, il partner, i figli. Sconfiggiamo la depressione, ci ammaliamo di meno, viviamo più a lungo.
In questo contesto la politica torna ad avere valore: amministrare la cosa pubblica, occuparsi degli altri è fondamentale per curarci di noi. Qualunque sia il giudizio che si può dare del Movimento 5 Stelle e della sua parabola, Gianroberto Casaleggio all’origine di quel movimento aveva compreso il valore della partecipazione al di là degli schieramenti:
Se ognuno di noi, dal commercialista all’idraulico al dentista, dedicasse una parte del proprio lavoro anche agli altri, il mondo lo potremmo cambiare davvero.
Del resto le grandi sfide globali che abbiamo davanti riguardano tutti come comunità umana e come specie, e difficilmente saranno affrontate e risolte solo grazie alla prevalenza di questo o quel partito. Servirà un’allleanza e una comunione d’intenti più ampia. Ed è anche per questo che la proposta politica attuale risulta spesso così insoddisfacente, così deficitaria agli occhi degli elettori.
Su questioni come il cambiamento climatico, gli squilibri sociali, la governance della tecnologia e delle sue trasformazioni, l’individualismo e l’isolamento non fanno che rallentare e ritardare le risposte che sarebbero necessarie.
All’origine della democrazia occidentale c’è il famoso discorso di Pericle agli ateniesi, che come un ritornello ripete “Qui ad Atene noi facciamo così”, e che comincia con la frase :
“Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia.”
Il compito politico dell’Europa in questa fase, al quale riesce a rispondere solo in parte, è ritrovare l’orgoglio di dire: questi sono i nostri valori condivisi, questo è ciò su cui siamo d’accordo, questo è lo spazio in cui ci riconosciamo, al di là delle differenze.
La democrazia è lo spazio in cui smettiamo di essere individui, smettiamo di essere nazioni, e cominciamo a essere un noi.
Per rilanciare la spinta della democrazia e la sua capacità di incidere sulla vita delle persone serve un modo nuovo di coinvolgere i molti nella vita collettiva, per sottrarli alla tirannia dei pochi. Serve un nuovo “noi facciamo così”, in grado di mettere in evidenza i valori condivisi, la prevalenza del benessere comune su quello individuale, la capacità di dare forza a quel “noi”.
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