L’universo non è un orologio
E le organizzazioni del futuro non saranno macchine, ma sistemi viventi
In questa newsletter raccontiamo i nostri Futuri Preferibili in tre mosse: partiamo da qualcosa che accade nel presente, prendiamo la rincorsa nel passato e facciamo un salto nel futuro. Non per prevederlo, ma per provare a indirizzarlo.
Noi siamo qui
D’estate pensiamo di avere a disposizione tempo illimitato, e riempiamo valigie e dispositivi elettronici di libri che non leggeremo. Per poi trovare magari un vecchio libro su una bancarella, e passare le vacanze in compagnia di una storia che non avevamo previsto.
Oppure capita che Matteo tiri fuori un link da un sito che sembra risalire - e forse risale - agli anni Novanta. E apre percorsi inattesi, lontano dalle letture previste e dal flusso permanente delle informazioni, alla riscoperta di idee che l’ossessione per l’attualità ci aveva nascosto.
Seguendo uno di questi percorsi abbiamo “ritrovato” lo straordinario lavoro di Margaret Wheatley sull’organizzazione del lavoro, a partire da un articolo che, visto il titolo, non poteva non attirare la nostra attenzione: The Irresistible Future of Organizing.
Wheatley elaborava nel 1996 una tesi che sembra parlare al mondo di oggi: abbiamo costruito organizzazioni che si comportano come macchine. Ma perché dovremmo lavorare all’interno di sistemi che funzionano come macchine e ci costringono a comportarci come macchine?
Le macchine non hanno vita, sono progettate per funzionare in ambienti controllati, previsti e progettati dagli ingegneri, con la conseguenza che ogni cambiamento imprevisto può causare la loro distruzione.
Molto meglio, dice Wheatley, pensare a un’organizzazione come a un sistema vivente.
Flashback
Ma come siamo arrivati all’idea che le organizzazioni siano macchine?
Nel XVII secolo scienziati e filosofi hanno cominciato a descrivere l’universo come un grande orologio. A partire da questa immagine, abbiamo iniziato a pensare ai sistemi complessi come meccanismi, composti da ingranaggi che possono essere controllati e agiscono in modo prevedibile, secondo un rapporto lineare di causa-effetto.
Se l’organizzazione è un ingranaggio, ogni suo elemento può essere conosciuto e gestito, ogni processo può essere efficientato, e i comportamenti delle persone possono essere ingegnerizzati attraverso tecniche e strumenti capaci di guidare e regolare il funzionamento complessivo del sistema.
Ancora oggi la maggior parte delle organizzazioni lavorano seguendo un modello messo a punto durante la rivoluzione industriale. Una rivoluzione guidata e modellata dalle macchine: e siccome erano le macchine a rendere possibile l’aumento della produttività, si è pensato che le persone dovessero assecondare e imitare il funzionamento delle macchine.
Il management scientifico teorizzato da Taylor e applicato da Ford era ispirato dall’idea che il lavoro umano andava scomposto e programmato in modo da ricavare da ogni gesto la massima efficienza. A questa idea organizzativa poi si sono associate altre caratteristiche che hanno definito il lavoro moderno:
la separazione di ruoli e mansioni
la creazione di rigide gerarchie e catene di comando
la professionalizzazione, ovvero l’idea che le persone sono valutate esclusivamente per le loro competenze operative, e non devono aggiungere al lavoro niente di individuale e personale.
Questa impostazione, in grado di aumentare produttività e ricchezza in modo vertiginoso, ha dato alle aziende una struttura pesante, molto difficile da scardinare e da modificare.
Nel frattempo però l’economia, la società, la cultura e l’ecosistema tecnologico sono cambiati radicalmente, e hanno cambiato il nostro modo di fare più o meno tutto. La risorsa più importante per il lavoro è diventata la conoscenza: al sistema industriale, che valorizzava efficienza e spersonalizzazione, si è sostituito un sistema che valorizza idee e creatività, per il quale adattabilità, flessibilità e disponibilità al cambiamento sono diventate essenziali.
Per questo oggi le organizzazioni-macchine ci sembrano così inadeguate ad affrontare le sfide del presente, e creano così tanto attrito con i bisogni delle persone, le richieste del mercato, e il movimento della società.
“Stai al tuo posto alla catena di montaggio” .
“Fai solo ciò che ti viene detto”.
“Separa il lavoro dalla tua personalità”.
Principi come questi sembrano assurdi a qualunque lavoratore o lavoratrice della conoscenza. Eppure sono proprio i principi su cui si è fondata l’era delle organizzazioni-macchine.
Fast forward
Ecco perché le idee di Margaret Wheatley sulle organizzazioni come sistemi viventi rappresentano davvero un futuro irresistibile, e preferibile, nonostante arrivino dal passato.
Le organizzazioni del futuro dovranno avere tutte le caratteristiche che hanno i sistemi viventi: dovranno essere adattabili, flessibili, capaci di auto-rinnovarsi, resilienti, capaci di imparare, intelligenti.
Soprattutto, le organizzazioni dovranno imparare dai sistemi viventi la capacità di auto-organizzarsi. Rispondere agli stimoli dell’ambiente e strutturarsi in modi sempre più complessi a seconda delle necessità, trasformandosi e modificando il proprio funzionamento nel momento in cui le condizioni esterne cambiano. Organizzarsi e riorganizzarsi continuamente ricombinando i propri pattern interni, senza che ci siano elementi esterni a imporre una pianificazione o a dettare istruzioni.
Il cambiamento non è più un'eccezione pericolosa, come per le macchine. È la forza che organizza i sistemi viventi. Tutte le strutture e le soluzioni sono temporanee, la sperimentazione è la norma, le risorse sono continuamente riallocate, i processi cambiano, la partecipazione e la condivisione sono continue, e i leader sono prodotti dalle contingenze, non imposti dall’alto.
Sono moltissimi i fenomeni naturali e sociali che funzionano in questo modo da sempre, e spontaneamente. Le persone si comportano così in situazioni di emergenza, ad esempio dopo una calamità, ma anche nelle comunità e nelle situazioni informali, in cui il libero apporto di ognuno è la regola.
Pensate al gioco dei bambini: prima o poi emerge puntualmente una forma di ordine, senza che nessuno lo abbia pianificato.
E poi ci sono i sistemi naturali, organismi e animali che creano spontaneamente organizzazioni complesse: dagli alberi che comunicano e collaborano attraverso le radici, agli stormi di uccelli che volano formando figure geometriche, alle termiti che collaborano per costruire torri strabilianti, fino alla struttura molecolare di alcune sostanze chimiche. Ovunque la natura tende a organizzarsi, a creare e a ricreare l’ordine, senza che ci sia qualcuno a gestirla e a controllarla.
Questo tipo di ordine auto-organizzato, infatti, è una qualità emergente: non proviene cioè dall’esecuzione di un piano, ma si forma organicamente come risultato del continuo adattamento del sistema agli stimoli esterni.
L’auto-organizzazione si basa, secondo Wheatley, su tre dinamiche fondamentali:
le relazioni tra individui, che si interconnettono fino a formare una rete che include tutto il sistema
la circolazione di informazioni, che deve essere sempre libera e multidirezionale
la costruzione spontanea di un sé, di una identità nella quale gli individui di un gruppo si riconoscono, e per la quale lavorano.
Ma se le organizzazioni sono sistemi viventi che si autogestiscono e si trasformano dall’interno, abbiamo ancora bisogno dei leader? Abbiamo ancora bisogno di qualcuno che dica alle persone cosa fare, come farlo, dando istruzioni e principi, impartendo ordini o anche solo mostrando e condividendo una visione?
La risposta è sì, ma solo a patto di cambiare in profondità l’idea che abbiamo della figura del leader. Il leader, nella parole di Margaret Wheatley, deve trasformarsi da hero a host, ovvero da eroe a ospite, una parola che in italiano descrive sia chi ospita, sia chi viene ospitato.
Il leader non potrà più essere l’eroe che sa tutto e può tutto, che avanza alla testa di un esercito, che si sacrifica e salva l’umanità grazie alla sua iper-performatività. Dovrà essere al contrario qualcuno che accoglie, che crea le condizioni migliori, che fa spazio, che coinvolge, che delega e responsabilizza, che incoraggia la sperimentazioni, che protegge e allestisce ambienti sicuri in cui ognuno può esprimersi.
Il leader del futuro dovrà chiedersi: cosa posso fare per rendere l’organizzazione sempre meno simile a una macchina, e sempre più vicina a un sistema vivente? Come posso far saltare processi, gerarchie, spersonalizzazione, e facilitare flessibilità, coinvolgimento, contributo personale, condivisione di informazioni e obiettivi?
Abbiamo accettato l’idea che l’universo non è più un orologio, ma uno strano oggetto pieno di dimensioni, di buchi, di salti, di punti oscuri, di zone inesplorate. Ora è il momento di accettare l’idea che la nostra azienda non è un insieme di ingranaggi, ma somiglia più al volo degli storni. Tra poco, alla fine dell’estate, cominceranno ad attraversare i nostri cieli. Basterà alzare la testa per imparare qualcosa.
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Non conoscevo Wheatley, che pensatrice interessante! Grazie.