In questa newsletter raccontiamo i nostri Futuri Preferibili in tre mosse: partiamo da qualcosa che accade nel presente, prendiamo la rincorsa nel passato e facciamo un salto nel futuro. Non per prevederlo, ma per provare a indirizzarlo.
Noi siamo qui
Qualche giorno fa ci siamo imbattuti in questo post di Factanza Academy che mostra quanto la nostra visione del mondo sia influenzata da automatismi mentali, detti “bias”. Si tratta di errori di giudizio che hanno un impatto sulle scelte che facciamo.
I più comuni sono il bias di conferma, che ci porta a leggere ovunque segnali che confermano le nostre idee; il “self-serving bias”, per cui quando qualcosa va bene è merito nostro, e quando va male è colpa degli altri; il bias del senno di poi, con cui cerchiamo di spiegare le cause di una situazione attraverso le informazioni che ci derivano dal suo esito. Fino al celebre effetto Dunning-Kruger, che nell’età di internet è diventato forse il re dei bias: chi conosce un argomento sottostima le proprie competenze, mentre chi non lo conosce sopravvaluta il proprio sapere. Ed è così che nascono le schiere di esperti “self made” che si accapigliano sui social.
Il catalogo dei bias ci ha fatto pensare a una storia che ci ha raccontato Andrea, tratta dal libro L'atto creativo: un modo di essere di Rick Rubin. Un storia che parla di una mossa inattesa, e della possibile via d’uscita dalla gabbia della ripetizione.
Flashback
Nel suo libro il produttore discografico statunitense racconta la celebre partita AlphaGo versus Lee Sedol, conosciuta anche come DeepMind Challenge Match. Nel 2016 Lee Sedol, il miglior giocatore al mondo di Go, sfidò un programma sviluppato da DeepMind, un laboratorio di AI acquisito da Google nel 2014.
Il gioco del Go, racconta Rubin, è antico e complesso. Nella comunità dell'intelligenza artificiale battere un essere umano al Go era diventata un’ossessione, pari a quella che portò alla celebre sfida a scacchi tra Deep Blue e Garry Kasparov nel 1997.
Poiché il numero di configurazioni possibili sulla tavola da gioco del Go è maggiore del numero di atomi nell’universo, si credeva che i computer non avessero la potenza di calcolo necessaria per battere un giocatore umano esperto.
Raccogliendo la sfida, gli scienziati crearono un programma di intelligenza artificiale chiamato AlphaGo. Il programma imparò a giocare auto-istruendosi, studiando più di 100.000 partite giocate in passato. Quindi giocò contro se stesso ripetutamente finché non fu pronto a sfidare il campione in carica del gioco.
Alla mossa 37 della seconda partita contro Lee Sedol, AlphaGo si trovò di fronte a una decisione cruciale che avrebbe determinato il corso della sfida. Apparentemente c’erano due scelte possibili: la scelta A, che indicava una strategia offensiva, e la scelta B, che indicava una strategia difensiva.
Invece il computer decise di fare una terza mossa, una mossa che nessun esperto del gioco aveva mai fatto in migliaia di anni di storia del Go.
“Nessun giocatore umano avrebbe fatto quella mossa. È stato un gesto creativo e unico”, disse Michael Redmond, un altro giocatore professionista di Go, commentando la partita.
Lee Sedol rimase così sorpreso che si alzò e uscì dalla stanza. Quando tornò non aveva la sua solita sicurezza, ma era visibilmente scosso e frustrato. Alla fine, AlphaGo vinse la partita. Gli esperti dissero che quella mossa mai vista prima cambiò il destino del confronto a favore dell’AI.
AlphaGo vinse quattro partite su cinque, e Lee Sedol si ritirò definitivamente dalla competizione.
Fast forward
Così sono andati i fatti. Ma la parte più interessante inizia ora.
Rubin scrive che, dopo aver sentito per la prima volta il racconto di questa storia, è scoppiato in lacrime, confuso da un’improvvisa ondata di emozioni. Questo perché aveva capito che la storia di AlphaGo parlava in realtà di creatività e in particolare del potere della purezza nell’atto creativo.
Cosa ha permesso a una macchina di ideare una mossa che nessuno aveva mai fatto in migliaia di anni di gioco? Non era solo intelligenza. La macchina aveva imparato il gioco da zero, senza allenatore, senza intervento umano, seguendo solo le regole fisse e ignorando le tradizioni secolari. Non era limitata da credenze, abitudini, inerzie restrittive.
Questo evento non è stato solo una pietra miliare nello sviluppo dell'intelligenza artificiale. È stata la prima volta che il Go ha conosciuto tutte le sue possibilità. Con una mente libera da preconcetti, AlphaGo ha potuto innovare e trasformare il gioco per sempre. Se avesse imparato dagli esseri umani, probabilmente non avrebbe vinto il torneo, perché non avrebbe visto la possibilità di quella mossa.
Un esperto di Go disse:
“Dopo migliaia di anni a migliorare le nostre tattiche, i computer ci mostrano che eravamo completamente in errore... Nessun essere umano ha mai sfiorato la verità ultima del Go.”
Ogni idea preconcetta e convenzione accettata limita le possibilità. Spesso crediamo che più conosciamo, più chiaramente vediamo le possibilità disponibili. Ma non è così. L'impossibile diventa accessibile solo quando non siamo limitati dall’esperienza.
Questo approccio è ciò che Rubin chiama “Beginner’s Mind”.
Noi lo chiamiamo Play New.
È ciò che ci viene richiesto per essere rilevanti.
Significa vedere cose che altri non vedono, fare domande che altri non fanno, compiere azioni che per altri sembrerebbero impossibili, sbagliate o fuori luogo.
Il mondo in cui viviamo è ossessionato dalla scienza e cerca di applicare una forma di razionalità analitica a tutti i fenomeni, anche a quelli che tendono a sottrarsi a questo tipo di esame, come la creatività.
L’approccio analitico tende a favorire l’elaborazione di ciò che è già noto rispetto all’esplorazione di ciò che non lo è. Rifugiandoci nel conforto dei dati siamo portati a pianificare piuttosto che a immaginare, cioè analizziamo con cura ciò che è noto e cerchiamo di definire un insieme logico di azioni per riuscire a gestirlo. Fino a quando poi le circostanze cambiano, i piani saltano e i problemi che ne conseguono vengono attribuiti a “eventi esterni imprevisti”. Ma gli eventi sono imprevisti perché non abbiamo avuto il coraggio e la creatività che servivano a immaginarli.
Al contrario, dovremmo imparare a immaginare un futuro preferibile - il più possibile libero dalle previsioni statistiche e dalle proiezioni dei dati - e prendere decisioni che offrono la migliore possibilità di realizzarlo. Questo processo non è analitico, ma creativo: e proprio per questo viene ostacolato dall’establishment, sia nelle organizzazioni, sia nella società.
Play New – cioè giocare in modo nuovo per cambiare le regole e scoprire la “verità ultima” di noi stessi, della nostra organizzazione o della industry in cui operiamo – è il vero scopo per cui iniziamo una trasformazione. Come AlphaGo non giochiamo per vincere: quella è una conseguenza, il risultato quasi automatico che deriva dall’aver rotto le abitudini, dell’aver scardinato lo status quo.
Giochiamo, cioè siamo nel business e nel mondo in un certo modo, perché vogliamo che ci sia un prima e un dopo di noi, proprio come per il gioco del Go c’è un prima e un dopo AlphaGo.
Alla base di ogni percorso trasformativo ci deve essere la volontà di riscrivere le regole del mercato e della società. E per riuscire a farlo serve disimparare e acquisire una mentalità da principiante, proprio come quella delle macchine. Serve liberarci dalla gabbia dei bias.
I bias sono delle semplificazioni della realtà che aiutano il nostro cervello a risparmiare energie cognitive. In un ambiente pieno di stimoli, a volte dobbiamo prendere decisioni rapide e elaborare velocemente le situazioni. Per questo il nostro sistema di pensiero utilizza scorciatoie, reazioni istintive e decisioni basate sull’abitudine e sul pregiudizio.
Le scorciatoie, però, diventano presto dei vicoli ciechi, soprattutto quando il nostro obiettivo è cambiare, innovare, trasformare la realtà. Per creare ciò che non esiste ancora, dobbiamo essere capaci di ripulire le nostre menti da tutto ciò che crediamo di sapere, dai gesti ripetitivi e dagli automatismi.
Esiste un racconto attribuito alla cultura zen giapponese, in cui un allievo chiede a un maestro cosa deve fare per padroneggiare un’arte, che sia la pittura, la musica, la scrittura. E il maestro risponde: impara tutto ciò che è stato fatto finora, e poi dimenticalo. L’intelligenza artificiale si trova un po’ nella stessa situazione paradossale dell’allievo - impara tutto, ma non sa niente -, e può aiutarci a riscoprire, e ad applicare anche all’intelligenza umana, questa verità antica.
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