In questa newsletter raccontiamo i nostri Futuri Preferibili in tre mosse: partiamo da qualcosa che accade nel presente, prendiamo la rincorsa nel passato e facciamo un salto nel futuro. Non per prevederlo, ma per provare a indirizzarlo.
Noi siamo qui
Una settimana fa Paolo ha ricevuto un messaggio da Andrea, che diceva: guarda che c’è Brian Collins che gira per Roma e invita la gente a visitare con lui i monumenti.
Approfondita la questione, Paolo scopre che Collins è a Roma per partecipare a Paradigms, una conferenza sul branding di cui non sapeva niente, ma che sembra davvero interessante: parteciperanno alcune delle agenzie e degli studi più influenti al mondo.
Per la passeggiata con Collins è troppo tardi, ma per la conferenza non tutto è perduto: le registrazioni chiudevano un mese prima, le speranze sono poche, ma Paolo scrive comunque all’organizzazione chiedendo di partecipare. Dopo mezz’ora riceve una mail che gli dice: sarà un piacere averti con noi, ecco il link ai biglietti, party e cene sono incluse.
E così Paolo ha passato i successivi due giorni a chiacchierare di Dante con Brian Collins, a riempire di domande i suoi collaboratori, ad ascoltare come nascono i progetti di Porto Rocha, a commentare il rebranding di Mozilla con quelli di JKR, ad ammirare le storie raccontate attraverso i dati da Giorgia Lupi, a parlare con chi gestisce il brand di Figma o di Tony’s Chocolonely.
La cosa più interessante di questa storia, però, non sono le storie e i progetti, il design e le strategie di comunicazione. E nemmeno il catering stellare e la cena a Villa Piccolomini con vista su San Pietro.
La cosa più interessante è stata come Paolo è arrivato a Paradigms: chiedendo di partecipare, ed essendo invitato. Pur non essendo una celebrità, né un collaboratore di qualcuno, né un partner o un cliente degli organizzatori.
Di fronte a un invito libero, gratuito, disinteressato a prendere parte a qualcosa di significativo ci è tornata in mente l’esperienza che Jon Levy ha raccontato nel libro You’re invited. The Art and Science of Connection, Trust, and Belonging. In cui spiega perché la connessione con gli altri è il più potente strumento di crescita e sviluppo che abbiamo a disposizione.
Così ci siamo chiesti: abbiamo smarrito la fiducia nelle connessioni umane spontanee? E come potremmo ritrovarla?
Flashback
Troppo spesso oggi un gesto semplice come chiedere di partecipare ci sembra qualcosa di straordinario, un azzardo. Ed essere accolti in modo disinteressato sembra un evento eccezionale, qualcosa di controintuitivo.
Come siamo arrivati a questa anomalia?
Viviamo vite rigidamente organizzate, in cui c’è poco spazio per l’imprevisto e per il caso. Ogni nostra azione è calendarizzata, e tutto ciò che non rientra nella pianificazione viene vissuto come uno spreco e una perdita di tempo.
La nostra esperienza è sempre mediata da processi, permessi, burocrazie, soprattutto in ambito professionale e lavorativo, e questo cancella quasi del tutto la spontaneità dalle nostre abitudini. Di conseguenza, siamo disabituati a cercare gli altri, a connetterci con gli altri in modo semplice e immediato.
La partecipazione spontanea genera diffidenza. È vista con sospetto, come qualcosa di strano.
Perché sei qui? Qual è il tuo vero scopo? Che agganci hai? Chi ti manda? Sei un imbucato?
C’è anche un’altra ragione all’origine della difficoltà di chiedere agli altri e di accogliere gli altri: la nostra è una cultura fortemente incentrata sull’individualismo. Soprattutto negli ambienti professionali, siamo abituati a pensare che possiamo e dobbiamo contare solo su noi stessi.
Il modello dominante del successo è basato sull’affermazione personale. Mostrare di aver bisogno degli altri, chiedere aiuto, confrontarsi, è un segnale di debolezza. E questo ci ha portato a chiuderci in delle bolle spesso impermeabili.
Le conoscenze e le relazioni che si coltivano sono tutte funzionali, finalizzate a ottenere qualcosa: non si fanno incontri ma networking, che è la versione corporate dell’amicizia.
In più, a molti di noi accade di spostarsi frequentemente, per esigenze di lavoro o di vita, di cambiare quartiere, città, paese. Questa mobilità naturalmente ha molti aspetti positivi, ma ci porta anche ad azzerare continuamente i nostri circoli sociali, e quindi rende più incerto il nostro senso di appartenenza, più difficile creare connessioni e partecipazione.
In questo contesto la tecnologia e i sistemi di comunicazione non ci aiutano: gli strumenti che dovrebbero connetterci sono anche quelli che ci isolano e ci allontanano dagli altri, che ci nutrono di contenuti progettati per tenerci incollati alle piattaforme, spesso alimentando diffidenza reciproca e paura.
Il risultato è che siamo di fronte a vere e proprie epidemie di solitudine. Per questo ritrovarci in mezzo agli altri, condividere un’esperienza imprevista e non pianificata, ci sembra un evento eccezionale, che ci fa sentire euforici ma può anche generare disagio, perché ci porta lontano dalla nostra zona di comfort.
Fast Forward
Per capire come potrebbe essere il futuro delle nostre connessioni, torniamo a Jon Levy e al potere dell’invito.
Nel suo libro, uscito qualche anno fa, subito dopo la pandemia, Levy racconta come è arrivato a organizzare centinaia di Influencer Dinners: cene in cui ha invitato a casa sua persone importanti, eccellenze assolute in tutti campi, dal business, allo sport, alla cultura, facendo preparare loro la cena, facendogli lavare i piatti e anche pulire i pavimenti.
Quando si parla di influencer qui non bisogna pensare ai campioni di like di Instagram: Levy chiama così le persone in grado di influenzare la vita degli altri attraverso ciò che di più significativo sono riuscite a raggiungere e a costruire. Di ispirare attraverso la loro esperienza, il loro esempio, la loro capacità di apprendere e trasformarsi.
L’iniziativa di Levy non è nata dalla volontà superficiale di circondarsi di celebrities e personaggi famosi, o di farsi amici potenti in modo da poter sfruttare il loro potere. La sua molla era la volontà di migliorare la propria situazione. Era in difficoltà, solo, smarrito, e si è detto: forse se inizio a circondarmi dei migliori, posso diventare anche io migliore.
Isolamento sociale e mancanza di relazioni indeboliscono gli individui, li rendono impotenti e li espongono maggiormente a ritrovarsi in situazioni di marginalità. Le persone sole hanno più possibilità di cadere vittime delle dipendenze, delle patologie, della radicalizzazione politica.
Levy ha agito guidato da questa consapevolezza, e dalla convinzione che l’elemento fondamentale che definisce la qualità della nostra vita sono le persone di cui ci circondiamo e le conversazioni che abbiamo con loro.
Non si tratta solo di “frequentare gli ambienti giusti”: qualunque cosa abbiamo intenzione di creare, qualunque impresa, avventura, business, operazione culturale, per realizzarsi ha bisogno degli altri. Da soli non possiamo realizzare nulla, per quanto buona sia la nostra idea di partenza, e per quanto grande il nostro impegno.
Quasi tutto ciò che ci succede, le nostre preferenze, le aspirazioni e le avversioni, dipendono dalla rete delle nostre relazioni. Gli altri ci influenzano e ci orientano: nulla di quello che facciamo nasce unicamente nella nostra testa, nulla inizia e finisce con noi.
Una volta accettata questa prospettiva, è chiaro che più riusciremo a costruire connessioni di valore, maggiore sarà la nostra possibilità di emergere e fare cose importanti. La più universale strategia per il successo è creare connessioni significative con coloro che possono avere un impatto su di noi, sulla nostra vita, e sulle cose che abbiamo più a cuore.
Levy costruisce anche una “formula dell’influenza”, calcolando la capacità di influire sulla vita degli altri come il prodotto di una forte connessione, moltiplicata per la fiducia, ed elevata a potenza dal senso di appartenenza a una stessa comunità.
Influenza = (Connessione x Fiducia)Senso di comunità
In questa formula sta la differenza fondamentale tra la connessione e il networking: se il networking è basato sulla convenienza reciproca e sull’utilità, la connessione è basata sulla capacità di creare fiducia e sull’idea di poter condividere qualcosa di importante.
Levy costruisce le proprie esperienze di connessione a partire da due idee fondamentali che sono valide in ogni contesto di incontro e condivisione, e rappresentano un metodo quasi infallibile per costruire e potenziare le relazioni.
Ikea Effect. È provato che ci prendiamo più cura dei mobili Ikea, e li gettiamo via meno volentieri, perché ci siamo impegnati a montarli, abbiamo fatto uno sforzo per costruirli, e quindi ci appartengono di più. Per questo Levy chiede alle persone importanti di cucinare: lo sforzo condiviso, la collaborazione, l’esperienza di lavorare fianco a fianco per creare qualcosa sono moltiplicatori di fiducia, rafforzano e accelerano la costruzione di relazioni.
Vulnerability Loop. Portati a fare qualcosa che non padroneggiano del tutto, gli “influenti” sono più predisposti ad aprirsi e connettersi gli uni con gli altri. Perché mostrarsi vulnerabili, imperfetti, umani aumenta la fiducia degli altri, e crea una maggiore facilità di connessione e collaborazione. Chiedere aiuto, chiedere un’informazione, mostrare un punto debole ci rende più accessibili. Una volta condivisa la nostra vulnerabilità, anche gli altri saranno più disposti ad aprirsi, e quindi ci ispireranno più fiducia, alimentando il circolo virtuoso.
Questi due aspetti, la disponibilità a partecipare e a sporcarsi le mani insieme agli altri, e la capacità di condividere le nostre debolezze rinunciando a mostrarsi perfetti, sono gli elementi su cui potremo costruire le connessioni del futuro.
Per tornare a fare esperienze e incontri significativi, dovremo sempre di più:
cercare e creare contesti informali, non strutturati, non rigidamente organizzati, in cui partecipare e stare insieme agli altri senza la mediazione di processi e protocolli;
trovare qualcosa da costruire insieme, progetti che possiamo sentire nostri e che nascano al dì fuori delle necessità a breve termine del lavoro e della vita quotidiana;
avere occasione di conoscere le persone mentre fanno cose al di fuori della loro ristretta area di competenza, mentre provano a fare ciò che non sanno fare, mentre mostrano le loro debolezze, mentre si sporcano la giacca o sono costretti a togliersela;
raccoglierci non intorno a occasioni e temi dettati da altri, agende imposte dai trend o dall’hype del momento, ma intorno ai temi e ai problemi che ci interessano di più e ci stanno veramente a cuore.
Solo così potremo connetterci alle persone in modo davvero autentico. E sfruttare tutto il potenziale delle connessioni, la loro capacità di migliorarci, di farci imparare cose nuove, di portarci fuori dalla nostra zona di comfort.
La partecipazione infatti, quando è significativa e non è fatta col pilota automatico, avrà sempre anche un elemento di disagio, una frizione, un senso di inadeguatezza. È normale, prima di partecipare a un evento, a un progetto, a un'assemblea, provare incertezza, l’ansia di dover parlare con degli sconosciuti, la paura di non avere niente da dire, l’imbarazzo di rimanere in disparte.
Per superare questo disagio, bisogna pensare che è esattamente il sintomo che stiamo facendo un’esperienza potenzialmente trasformativa. E bisogna pensare che se non chiediamo, se non parliamo, se non facciamo domande, non avremo imparato niente, ce ne andremo via uguali a come siamo arrivati.
Quando ci buttiamo, nella maggior parte dei casi scopriamo che l’invito a partecipare e connettersi è sempre valido, sta a noi decidere di accettarlo e cambiare i nostri piani per la serata; la porta, più o meno, è sempre aperta: sta a noi spingerla e accorgerci che sì, possiamo entrare anche noi, e quello è il nostro posto.
In fondo anche noi abbiamo cominciato a scrivere Futuri Preferibili con il desiderio di creare connessioni e risonanza, al di là di uno scopo preciso e di un’utilità immediata.
Lo abbiamo fatto come fosse un invito a cena virtuale, in cui avremmo provato ogni lunedì a sperimentare con una ricetta diversa, esponendoci al rischio di affrontare tutti gli argomenti possibili, senza essere esperti certificati, ma esercitando sempre il massimo della curiosità e della volontà di imparare.
Partecipare, connettersi, farsi vedere, cercare la collaborazione significa uscire dai binari delle nostre giornate tutte schedulate - terribile parola per un terribile concetto - e andare verso ciò che è diverso da noi, ciò che estraneo, ciò che non conosciamo. E questo è davvero l’unico modo che abbiamo per imparare, per progredire, per crescere. E per ritrovarci ogni tanto a qualche cena di gala.
Futuri Preferibili nasce proprio per creare connessioni. Aiutaci a capire che valore ha per te questa newsletter e come possiamo migliorarla scrivendoci un commento, un’email o un messaggio su LinkedIn.
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Grazie per questa bellissima uscita!
Bellissima questa parte: "La partecipazione infatti, quando è significativa e non è fatta col pilota automatico, avrà sempre anche un elemento di disagio, una frizione, un senso di inadeguatezza". Senza riconoscere questi sentimenti non si può davvero capire la potenza di questo invito.