In questa newsletter io e Paolo raccontiamo i nostri Futuri Preferibili in tre mosse: partiamo da qualcosa che accade nel presente, prendiamo la rincorsa nel passato e poi facciamo un salto nel futuro. Non per prevederlo, ma per provare a indirizzarlo. Andiamo?
Noi siamo qui
Abbiamo ancora negli occhi le immagini della disfatta del Milan contro l’Inter, e quindi siamo in vena di domande esistenziali: cosa determina davvero il successo o la sconfitta? Lo sport, che spesso è una metafora della vita, può darci qualche risposta valida anche in altri ambiti.
Partiamo da una certezza: Messi è probabilmente l’ultimo grande talento puro della storia del calcio, il genio capace di creare bellezza dal nulla. Il suo rivale storico, Cristiano Ronaldo, è senza dubbio un giocatore talentuoso, ma ciò che lo ha reso unico, ciò che viene esaltato continuamente, è la sua dedizione. L’impegno totale per diventare il migliore, controllando in modo maniacale qualsiasi aspetto della sua vita, dall’alimentazione al programma di allenamento, dal sonno all’organizzazione del tempo libero.
Oggi il racconto dell’impegno ci interessa di più del racconto del genio che fa tutto senza sforzo: guardiamo affascinati i super allenamenti di Ibrahimovic, e gli atleti che i tifosi amano sono quelli di cui sentiamo dire “è il primo ad arrivare al centro sportivo e l’ultimo ad andarsene”. Capiamo meglio anche la storia che Andre Agassi ha raccontato qualche anno fa nella sua autobiografia, Open: lui bambino costretto dal padre ad allenarsi contro un drago sputapalle, perché “se colpisci 2.500 palle al giorno, cioè 17.500 la settimana, cioè un milione di palle l’anno, non potrai che diventare il numero Uno.”
Lo sport è sacrificio, disciplina, forza di volontà, passione, programmazione. La dedizione è ciò che trasforma uno sportivo in un campione. La performance, il gesto tecnico, il risultato non sono più il centro dell’attività sportiva: sono quasi la conseguenza naturale dell’impegno e della preparazione. E infatti continuiamo a seguire le gesta super-umane di Ibrahimovic anche ora che non gioca più.
Trasportando questo concetto in altri ambiti della vita e del lavoro, attribuiamo il successo di personaggi come Steve Jobs non solo al talento e alla visione, ma anche alla capacità di lavorare 90 ore a settimana per fare sempre la cosa più straordinaria possibile.
Per lo stesso motivo bolliamo come greenwashing quasi tutte le iniziative sporadiche delle aziende per l’ambiente, mentre siamo convinti che Patagonia salverà il mondo: perché è semplicemente quello che cercano di fare da sempre e che continueranno a fare finché esistono, con tutte le loro energie, il loro impegno, la loro dedizione.
È questa fedeltà a sé stessi, continua e incrollabile, a costruire la fiducia e l’ammirazione del pubblico, anche al di là dei risultati.
Flashback
Jasmine Bina e Zach Lamb di Concept Bureau hanno scritto un pezzo meraviglioso per spiegare come la rivendicazione aperta e visibile della dedizione è ciò che oggi dà forma allo status sociale e alla reputazione di individui e organizzazioni.
Sempre di più vediamo persone che si mettono alla prova, si allenano duramente, si sottopongono a regimi alimentari inflessibili, organizzano la propria vita in base a parametri di benessere molto attentamente analizzati. Insieme al corpo allenano e curano anche la mente, ricorrendo al supporto della psicoterapia, e perfino esplorando i confini della coscienza e della percezione attraverso la psichedelia.
Di fronte alle difficoltà di trasformare e riformare la società, abbiamo deciso che la priorità siamo noi. Dobbiamo pensare innanzitutto alla nostra maschera di ossigeno, come ci dicono in aereo prima del decollo. La trasformazione più importante deve accadere nella nostra interiorità, incidere sulla nostra volontà. E dalla nostra capacità di migliorarci dipenderà il nostro status, il nostro posto nel mondo.
Se prima infatti a definire chi eravamo era il consumo, la facoltà di acquisire oggetti, servizi, possibilità di accesso a luoghi o esperienze che ci distinguevano dagli altri, ora ciò che ci distingue davvero gli uni dagli altri è la capacità di plasmare le nostre vite a nostra immagine.
Su questa spinta nascono i progetti di self-commitment più radicali: dalle forme di ascetismo di chi decide di chiudere fuori il mondo per ricostruire sé stesso seguendo programmi di fitness rigenerativo, ai progetti di raggiungimento dell’immortalità basati sull’uso della tecnologia e lo studio scientifico dei parametri vitali, alla rinascita delle esperienze di spiritualità psichedelica.
Soprattutto, però, questa transizione culturale fondata sul self-commitment ha rotto un tabù strisciante: finora parlare di “lavoro su di sé” e auto-trasformazione era percepito come un atteggiamento individualistico, egoistico, anti-sociale. Nella sua nuova versione invece diventa un modo per avviare una trasformazione che riverbera sugli altri e sul mondo circostante. È il sintomo di un fenomeno che coinvolge intere comunità. È l’unico antidoto possibile alla perdita di significato e alla dispersione degli individui nel magma della società.
Fast forward
In una società in cui le speranze di futuro sembrano ridursi, in cui è così facile giudicare, criticare, abbattere e farsi abbattere, credere profondamente in qualcosa di positivo e ottimista è diventata la nuova forma del lusso, un’opportunità che non è disponibile per tutti.
Impegnarsi seriamente in un percorso di crescita e di miglioramento è ciò che ci tiene vivi, che ci fa desiderare di esserlo.
La dedizione è un serbatoio di storie da raccontare, storie che le persone vogliono ascoltare davvero. Non ci accontentiamo più di un feed di foto ritoccate e senza un filo logico su Instagram: vogliamo leggere le didascalie, capire in profondità come ognuna delle esperienze raccontate in quelle foto si inserisce in un percorso trasformativo più ampio, al quale qualcuno sta dedicando il massimo delle proprie energie.
Pensate all’ultima volta che qualcuno vi ha parlato della sua passione dominante. Se l’avete ascoltato con interesse (e magari anche con un pizzico d’invidia) non è certo per le cose che vi ha descritto, ma per quella luce che avete visto nei suoi occhi, quella fatica a trovare le parole giuste per esprimere l’adesione totale, quasi ossessiva, a un progetto di vita.
Il segreto è trasformare una routine, cioè qualcosa che facciamo ripetutamente in modo automatico, in un rituale, ovvero qualcosa che facciamo con il massimo della consapevolezza e dell’energia, pienamente immersi nell’esperienza del compito, anziché pensando solamento a “chiuderlo”.
C’è un proliferare di servizi che ci aiutano a incanalare e potenziare questa esperienza, convergendo verso un approccio olistico al concetto di benessere, che diventa stare bene in tutti i sensi, tenendo insieme tutti gli aspetti dell’esistenza. Raggiungere un equilibrio complessivo che è il vero traguardo ultimo del self-commitment.
La piattaforma di psicoterapia online Serenis, ad esempio, ha introdotto una funzione di journaling digitale che permette di tracciare e monitorare le emozioni e di settare obiettivi giornalieri per raggiungere il benessere psicofisico: bere acqua, trascorrere tempo nella natura, dormire 8 ore, e molte altre attività “sane”. Analogamente Buddyfit, che nasce per accompagnare le persone nella routine dell’allenamento, si sposta verso il rituale del benessere olistico integrando Chef, la sezione dedicata alla nutrizione.
Il self-commitment visibile e manifesto è un futuro preferibile carico di potenziale, tanto per le persone quanto per le aziende. Ci offre modi nuovi di sentirci liberi e di agire per trovare un significato autentico nella nostra vita. E per la prima volta da molto tempo ci sembra qualcosa di reale, qualcosa che ha un effetto trasformativo tangibile, qualcosa in cui riversare la nostra speranza per il futuro.
C’è un problema però, ed è un problema linguistico. Parole come impegno e dedizione sono state svuotate del loro significato perché ne abbiamo abusato: tutti dichiarano di impegnarsi, tutte le aziende hanno la “passione” tra i loro valori, e quindi nessuno lo fa in modo significativo, nessuno è capace di renderla un’attitudine davvero unica e distintiva.
Per questo sarà decisivo riuscire a recuperare il senso più profondo della dedizione, se necessario prendendo in prestito parole e immagini da altri mondi, come lo sport, dove il significato della parola e i suoi effetti sulle persone sono più chiari, più leggibili.
Ma dobbiamo anche andare oltre, spostando il focus della nostra attenzione non sui risultati che otteniamo, ma sulla grandezza, la complessità e la fatica implicite nella sfida che vogliamo superare. Chi fa sport lo sa: l’atleta non cerca soltanto la performance perfetta, ma i gesti che lo fanno sentire completamente allineato con sé stesso, in armonia con il corpo e la mente, immerso nella “zona” in cui diventa la versione migliore di sé stesso o sé stessa.
Nel futuro prossimo, in cui automazione e ottimizzazione promettono di rendere la routine sempre più efficiente, dedizione e ricerca del significato in ciò che si fa saranno decisivi: non solo per le singole persone, ma anche per le organizzazioni, che riusciranno a distinguersi se saranno capaci di aggiungere all’efficienza della routine l’attenzione e la volontà di miglioramento che la trasformano in un rituale.
I brand del futuro si distingueranno non tanto per i risultati, ma per l’importanza e la complessità delle sfide che avranno accettato di affrontare, e quindi di raccontare. Non servirà a molto promettere semplicità, facilità di accesso, annullamento dell’attrito: la facilità è ovunque, sapranno prometterla e garantirla tutti. Farà la differenza chi saprà coinvolgere le persone in questioni complesse, che meritano il massimo della nostra dedizione perché hanno davvero il potere di trasformare le nostre vite, portandole a un livello superiore di intensità.
“Difficile, ma ne vale la pena”: è questa la promessa che nel futuro darà senso alle nostre vite e attirerà la nostra attenzione.