In questa newsletter io e Paolo raccontiamo i nostri Futuri Preferibili in tre mosse: partiamo da qualcosa che accade nel presente, prendiamo la rincorsa nel passato e poi facciamo un salto nel futuro. Non per prevederlo, ma per provare a indirizzarlo.
Noi siamo qui
Nel primo post del 2024 abbiamo parlato di come tutto ciò a cui prestiamo attenzione cresce e si intensifica. Forse è per questo che, dopo l’ultima newsletter in cui abbiamo discusso di come le piattaforme ci stiano trasformando in drogati da scrolling, ci è sembrato di vedere e leggere soltanto contenuti che parlano della necessità di tornare indietro, di riprendere il contatto con noi stessi e con la natura, di riportare il sistema in cui viviamo più vicino alla nostra dimensione di esseri umani.
La cosa che ci ha colpito di più in questa settimana è stata l’intervista che Angelo ha fatto agli Eremitici, due ragazzi che hanno lasciato Milano per comprare un bosco in Valsassina, ristrutturare un rudere e vivere nella natura.
Abbiamo provato un pizzico di invidia per loro: hanno raccontato con molta trasparenza gli aspetti difficili della loro nuova vita – cavarsela con poco denaro, costruirsi una casa da soli, proteggere l’orto e il bosco dalle intemperie, gestire ogni giorno, anche da ammalati, le coltivazioni e gli animali – ma in tutto questo sembravano estremamente felici.
Riportandosi a uno stato di necessità e di autosufficienza, hanno imparato a stare bene tra di loro, a conoscersi meglio, a riprendere il contatto con la terra, gli alberi, gli animali.
Lo stato di necessità ha rafforzato anche i loro legami con gli altri, con la comunità del territorio. Le persone del borgo vicino sono estremamente solidali: visitano la loro casa, danno consigli, portano loro cibo e li aiutano ad acquistare ciò di cui hanno bisogno.
Una delle cose più interessanti della storia degli Eremitici è che non hanno abbandonato Internet, tutt’altro: nella loro visione Internet è proprio ciò che rende possibile una scelta come la loro. Prima di Internet, dicono, lasciare la città per vivere in montagna, auto-costruendosi una casa e auto-producendo cibo, energia e vestiti, sarebbe stato difficilissimo, forse impossibile. Ora invece esistono community di persone da tutto il mondo che, grazie alle piattaforme (YouTube sopra tutte), condividono la loro esperienza, le loro storie, suggerimenti e tutorial che rendono possibile qualsiasi cosa, anche per chi non ha mai lavorato la terra o posato un mattone.
Insomma, sembra che questi due ragazzi siano riusciti a:
tornare in armonia la natura
creare legami solidali con altre persone
scoprire e usare solo il meglio di Internet
soprattutto, essere felici.
È l’indicatore che ci troviamo di fronte a un Futuro Preferibile per le nostre vite?
Flashback
Nella sua ultima newsletter, Adam Mastroianni parla di come, nel corso del tempo, le persone tendono a rimanere più o meno allo stesso livello di felicità, qualunque cosa accada. Partendo da un grafico che mostra il grado di felicità degli americani nel tempo, Adam fa notare come, nel 1948, circa il 20-30% delle famiglie americane non aveva né frigorifero, né WC, né acqua corrente. Nessuno aveva un’asciugatrice, un climatizzatore o un forno a microonde, perché non erano ancora stati inventati. Siamo passati letteralmente dal fare i nostri bisogni in un gabinetto fuori casa al farli in un bagno climatizzato, mentre le macchine fanno il bucato e cucinano per noi, eppure il nostro livello di felicità non è cambiato: è come se la nostra risposta al progresso fosse stata un collettivo “ok, ma in fondo chi se ne importa…”.
Eppure di cose ne sono cambiate.
Come esseri viventi, gli umani sono parte integrante della biosfera. A partire dalla Rivoluzione Industriale, la biosfera è stata progressivamente sostituita da costrutti artificiali. Carbone e petrolio, cemento e plastica hanno permesso agli esseri umani di rimodellare il mondo attraverso l'utilizzo delle macchine. Alcuni chiamano questo scenario “tecnosfera”, un contesto in cui la tecnologia e le sue richieste materiali hanno colonizzato ogni zona biologica della Terra e plasmano la vita umana nella sua interezza.
Le persone passano più tempo nella tecnosfera che nella biosfera. L’adolescente medio negli Stati Uniti trascorre quasi otto ore al giorno davanti a uno schermo: può identificare i personaggi dei videogiochi, ma difficilmente sa riconoscere gli alberi o gli uccelli fuori dalla sua finestra.
Oltre dieci anni fa lo chef Jamie Oliver aveva registrato un video in cui visitava una scuola elementare in West Virginia: i bambini non sapevano identificare frutta e verdura.
E a proposito di video, guardate questo.
Il comico e podcaster Jack Schwartz descrive molto bene il paradosso in cui ci troviamo.
Come animali, ci siamo evoluti in un ambiente e in un contesto sociale modellati dal nostro istinto di stare all’aperto, trovare cibo, procreare e celebrare le nostre conquiste con il nostro piccolo clan. Negli stadi più recenti dell’evoluzione però abbiamo costruito ambienti artificiali sempre più separati e protetti dagli agenti naturali. Salvo poi rimpiangere il contatto con la natura: ci siamo chiusi nelle case, e le abbiamo dotate di luci che simulassero il sole. Abbiamo decorato le pareti con quadri di fiumi e montagne. Soffriamo di mal di schiena? Compriamo materassi duri come il terreno. Per rilassarci ascoltiamo suoni della natura su Spotify. E per sentirci meno soli ci facciamo compagnia con gli animali, che da fuori abbiamo portato dentro casa: solo che non vedono l’ora di uscire!
Qualcuno comincia a pensare che l’unico antidoto a questa confusione sia tornare alle nostre radici naturali, o fare inner rewilding.
Fast forward
Thomas Klaffke suggerisce dodici step per l’inner rewilding. Dopo aver lanciato l’allarme sui pericoli dell’addiction digitale, Ted Gioia ha condiviso un altro pezzo sull’importanza di costruire rituali per contrastare gli aspetti peggiori della società tecnologica. E anche oggi ha scritto di come costruire una relazione più sana con la tecnologia. La giornalista Jessica Carew Kraft ha scritto su Psyche un articolo su come recuperare il nostro io più vicino alla natura.
E questi sono soltanto alcuni esempi di quanto fermento ci sia sul tema.
Come si fa a fare inner rewilding?
Abbiamo scelto cinque consigli tra quelli che ci sembrano più attuabili e interessanti.
Non fare, per almeno dodici mesi
Di questo ha scritto molto Jenny Odell, nel suo How to Do Nothing: Resisting the Attention Economy.
“Non fare” per dodici mesi non vuol dire necessariamente prendersi un anno sabbatico, oppure trasferirsi in montagna come hanno fatto gli Eremitici. Può voler dire prendersi un’ora di tempo al giorno in cui ci dedichiamo a noi e ai nostri affetti, lontani dalla tecnologia, oppure anche abbandonare i social media. Un anno è il tempo minimo per poter vedere gli effetti di questa scelta e capire se ne vale la pena. Matteo non ha un account Facebook o Instagram da dieci anni ormai – e non ha l’impressione di essersi perso molto. Ma il punto, come dicevamo sopra, non è disconnettersi o isolarsi del tutto: è creare contesti di tranquillità e concedere del tempo a noi stessi.
Attenzione alle interfacce
Non è necessario sbarazzarsi del telefono, ma possiamo ridurre al minimo la dipendenza dalle interfacce che prevedono lo scrolling infinito. Ted Gioia parla di paradosso delle app di dating: queste applicazioni non guadagnano se noi troviamo una compagna o un compagno; al contrario, hanno bisogno che continuiamo a cercare, cioè guadagnano dandoci il contrario di ciò che promettono. Per evitare di cadere in questa trappola, dobbiamo prestare molta attenzione alle interfacce: usarle, anziché farci usare.
Connettersi con gli altri
Avete presente i gruppi Whatsapp del condominio? Ecco, sono l’esempio perfetto delle contraddizioni in cui siamo immersi: si discute, si litiga via chat, si creano problemi che non nascerebbero nemmeno se avessimo l’abitudine di uscire di casa e suonare alla porta del vicino.
Connetterci fisicamente ci porta a esercitare l’empatia, a pesare con più attenzione le parole che usiamo, a uscire fuori dal narcisismo e dall’autoreferenzialità che sono alimentati dalla vita digitale.
Portare il corpo e la mente fuori dalle situazioni di comfort
La nostra newsletter è un ottimo esempio di stress, per noi e per chi la legge 😀 È uno spazio in cui resistiamo alla logica digitale che ci porterebbe a semplificare, tagliare, ottimizzare. E in cui cerchiamo di salvaguardare la complessità del pensiero, a costo di imporre a noi e ai lettori una dose di fatica. Del resto la fatica, anche fisica, è ciò che ci riporta a contatto con la nostra dimensione naturale. Ricordarci che esistono la stanchezza, il freddo, il caldo, lo sporco, l’attrito è un modo per rinaturalizzare il nostro corpo, ormai assuefatto a stare in ambienti asettici. Esporci ai disagi della natura rafforza il nostro sistema, aumenta la resilienza per resistere alle difficoltà, e ci rende più grati per i momenti di comfort di cui godiamo nella vita.
Misurare
Tutti sappiamo che molte metriche dei social sono vanity metric. Eppure facciamo troppa fatica a liberarci dall’ossessione per il numero di follower, di like, di visualizzazioni… Per molti è incomprensibile che noi non sappiamo con esattezza quanti lettori della newsletter abbiamo, così come non ci preoccupiamo ossessivamente di averne di più, né ci disperiamo per il fatto che a ogni invio qualcuno si disiscrive. Questo perché andiamo verso metriche più qualitative, come la risonanza, di cui abbiamo già parlato. E perché ci sembra più importante avere un pubblico motivato, disposto a fare un po’ di fatica in più, che cerca connessioni autentiche, che preferisce la lettura allo scrolling, e che vuole difendere e coltivare la propria attenzione. Magari questo non ci porterà a vivere nel bosco - anche se a Matteo non dispiacerebbe - ma di sicuro ci porta più vicini a noi stessi e a chi vorremmo essere.
Lo chef Pietro Leemann ha parlato di recente della sua scelta di diventare monaco buddista, senza perdere l'abitudine di occuparsi di cibo. Un esempio su cui riflettere!