In questa newsletter io e Paolo raccontiamo i nostri Futuri Preferibili in tre mosse: partiamo da qualcosa che accade nel presente, prendiamo la rincorsa nel passato e poi facciamo un salto nel futuro. Non per prevederlo, ma per provare a indirizzarlo.
Andiamo?
Noi siamo qui
Lo sospettavamo, ma ora c’è una ricerca che lo conferma: costruire identità di brand forti e durevoli ha effetti positivi anche sulle vendite. Mentre la comunicazione che promette conversioni rapide e vendite nel breve periodo non ha effetti stabili e duraturi nella costruzione di un brand.
Lo sapevamo, ne abbiamo anche già parlato, ma forse si possono approfondire un po’ le conseguenze che questo tipo di ricerche potrebbero avere sul nostro modo di pensare la creatività.
Quando leggiamo (e scriviamo) Futuri Preferibili siamo tutti d’accordo che niente conta di più delle storie che vogliamo raccontare. Ma poi viviamo in una quotidianità dominata dalle verità scientifiche del marketing, dalle griglie dei dati, dagli excel in cui incrociamo obiettivi e risultati.
Come conciliare la proliferazione di strumenti “oggettivi” - che spesso non sono poi oggettivi come sembrano - e la necessità di raccontare storie inedite, di pensare in modo libero e creativo?
Flashback
Marc Andreessen nel 2011 ci ha avvertito che il software si stava mangiando il mondo.
La sua analisi si è rivelata corretta in modo travolgente. Da 20 anni ormai “every company is a tech company”: la tecnologia digitale si è insinuata in ogni aspetto delle organizzazioni, dalla produzione alla comunicazione. Non è più un reparto o un dipartimento a sé, ma il sistema operativo che fa funzionare tutto.
Nel corso di questo processo, anche gli aspetti creativi del lavoro delle organizzazioni si sono tecnologizzati, si sono affidati all’automazione, hanno adottato metodi sempre più aderenti alla logica degli strumenti tecnologici.
A partire dagli anni ‘90, soprattutto grazie al lavoro di IDEO, è diventato popolarissimo il design thinking, ovvero l’idea che il metodo del designer potesse essere applicato potenzialmente in qualsiasi contesto e adottato da qualsiasi persona.
Quei 5 passaggi, uno dietro l’altro, li conosciamo tutti: cerca di capire di cosa hanno bisogno le persone (empathize); definisci in modo chiaro necessità e obiettivi (define); elabora un’idea in grado di soddisfarli (ideate); crea una soluzione tecnica in linea con l’idea (prototype); prova a vedere se funziona (test).
Seguendo e iterando questo percorso, chiunque diventa un designer e può creare prodotti, servizi, innovazione.
Spinta dall’impulso di questa semplificazione, la professione del designer è esplosa. Non c’è nemmeno bisogno di citare le statistiche, basta pensare al numero di corsi e scuole di design nati nell’ultimo decennio. Corsi e scuole che formano prevalentemente (digital) product designer, UX designer, UI designer, ovvero designer orientati verso il software, proprio perché “every company is a tech company”.
Anche nelle agenzie e negli studi di design i designer di formazione “classica” stanno progressivamente lasciando il posto ai designer di nuova generazione, formati alla scuola della tecnologia. Nelle aziende, intanto, si afferma la tendenza a internalizzare il design: ma i designer che vengono assunti finiscono a lavorare nel reparto tecnologico, spalla a spalla con developer, product manager, agile coach e scrum master. Quasi ogni azienda ha un Chief Technology Officer, ma quasi nessuna ha un Chief Design Officer.
A quali risultati ha portato questa trasformazione?
Ce ne sono tre che ci sembrano evidenti:
nel marketing e nell’advertising, l’attenzione alla performance prevale sulla necessità di costruire il brand e migliorare la sua reputazione;
nella creazione del prodotto, l’innovazione fatta di micro-incrementi (seguendo la regola del 3%, il tasso di novità che il pubblico è in grado di digerire senza disorientarsi) prevale sulla disruptive innovation;
nella cultura del brand prevale, a scapito dell’unicità e della voglia di differenziarsi, il blanding, ovvero la ripetizione di ciò che funziona per i brand tech dominanti.
Perché abbiamo imboccato questa strada?
Perché è semplice e, in un certo senso, funziona! La performance dà i risultati immediati e misurabili che piacciono ai marketer. L’innovazione del 3% risponde al bisogno moderato di novità delle persone, senza destabilizzarle. Il blanding ci fa sentire sempre a casa, e ci fa risparmiare le energie che servirebbero per decifrare i diversi linguaggi dei brand, se solo fossero diversi.
Che problema c’è, allora?
Il problema non è solo che questi processi automatici sono incredibilmente noiosi. Il problema, lo abbiamo già accennato, è che siamo così concentrati a competere per i clienti di oggi che ci dimentichiamo del nostro pubblico potenziale di domani. Che è infinitamente più vasto e… preferibile. L’innovazione spinta dal design thinking riduce i rischi e i costi, ma rallenta la nostra esplorazione del futuro. Mentre i grandi designer che hanno fatto la storia del branding progettavano identità per essere timeless, senza tempo, senza data di scadenza, a noi conviene fare un rebranding ogni 2-3 anni per allinearci allo stile dominante.
Le tendenze che sembrano prevalere al momento rischiano di intrappolarci dentro un loop: raccogliamo un’infinità di dati sul mondo così com’è, li elaboriamo, li interpretiamo, e li usiamo per creare prodotti e messaggi che sono esattamente quelli che il mondo si aspetta. Le possibilità di scartare, di fare qualcosa di inatteso e insperato, sono poche.
Insomma, continuiamo ad essere present-oriented, anziché future-oriented. Riusciremo a cambiare il mondo a colpi di 3%?
Fast Forward
Omologare stile, linguaggio e pensiero alla logica delle piattaforme poteva funzionare fino a qualche tempo fa, ma oggi le cose stanno cambiando rapidamente. Oggi conta di più distinguersi, tentare strade inesplorate, perché nel grande mare del blanding nessuno noterà più il nostro stile “da startup tecnologica”.
Ma cosa ci distingue davvero, in modo significativo e non solo superficiale? Dopo anni in cui la comunicazione, sempre sulla scia dell’ondata tech, si è preoccupata soprattutto di promuovere le caratteristiche, le feature dei prodotti e dei servizi e i loro benefit, cioè il modo in cui ci semplificavano e miglioravano la vita, ora forse c’è spazio per tentare una comunicazione incentrata sul belief. Sulle cose in cui crediamo, sul perché esistiamo, sui cambiamenti che vorremmo vedere accadere nel mondo. Sulla cultura, intesa in un senso che recuperi la sua parte umanistica di ricerca e interrogazione, a scapito della funzionalità tecnologica.
Eppure non vorremmo che questa idea fosse interpretata come una volontà di tornare indietro. Abbiamo letto con divertimento una bella intervista a Gianpietro Vigorelli sulla “creatività sfrenata” dell’epoca d’oro della pubblicità. C’è stato probabilmente un tempo di grande libertà creativa nel mondo della comunicazione, ma quello era anche un tempo basato sullo spreco di risorse enormi, sull’eccesso, sull’eccentricità, l’individualismo e a volte anche il capriccio dei “grandi creativi”. Non è un tempo al quale ci piacerebbe tornare. Non è con la nostalgia che si inventa il futuro.
Anzi, esiste un futuro preferibile in cui a tirarci fuori dal loop della ripetizione potrebbe essere proprio un’accelerazione tecnologica. Se a questa accelerazione riusciamo ad affiancare anche un’accelerazione culturale.
Secondo molti analisti l’evoluzione dell’intelligenza artificiale potrebbe destabilizzare in profondità il contesto attuale delle grandi piattaforme. E quindi scompaginare per un attimo i nostri sistemi basati su metriche, numeri, dati, performance. Forse sarà solo un intermezzo, e gli algoritmi si riorganizzeranno altrove, ma nel frattempo la destabilizzazione potrebbe liberare energia e creatività. Prima che un nuovo sistema si cristallizzi, sta a noi provare a indirizzare di nuovo in senso libero e creativo le storie che siamo chiamati a raccontare.
In che modo?
Da un lato, ci separiamo dalle macchine. Lasciamo che siano gli algoritmi ad occuparsi di performance e ottimizzazione, smettiamo di lavorare per loro e liberiamo tempo e spazio per la creatività e l’immaginazione. Quando tutto sarà tech, avremo bisogno di orientare il nostro focus su qualcos’altro: il belief, la cultura, la visione del mondo.
Dall’altro lato, acceleriamo la cultura creativa fino al punto in cui potrà servirsi delle macchine, anziché inseguirle. Mettiamo i CDO nelle aziende. Insegniamo ai designer non solo il design thinking, ma anche metodi di foresight strategico. Programmiamo le macchine per generare l’inaspettato, per andare oltre il noto, per stimolare la nostra capacità immaginifica.
Le performance, i risultati, le metriche sono spesso l’ossigeno che ci tiene in vita. Ma noi non viviamo per questo. Viviamo per ispirare dei cambiamenti nelle persone e per trasformare in meglio gli ambienti in cui lavoriamo. Viviamo per fare qualcosa di importante e insieme di bello. Viviamo per far pensare, per far nascere curiosità e perfino dubbi. Viviamo per immaginare ciò che non esiste ancora, non per replicare ciò che esiste già.
Non è forse questo il lavoro più bello del mondo?
Su YouTube ci sono diversi spassosi interventi al vetriolo di Brain Collins su Design Thinking & Co. Enjoy!
Bravissimi