In questa newsletter io e Paolo raccontiamo i nostri Futuri Preferibili in tre mosse: partiamo da qualcosa che accade nel presente, prendiamo la rincorsa nel passato e poi facciamo un salto nel futuro. Non per prevederlo, ma per provare a indirizzarlo.
Andiamo?
Noi siamo qui
All’inizio c’erano i social network: servivano alle persone per tenersi in contatto. A un certo punto sono diventati social media: piattaforme in cui ognuno di noi può diventare un produttore di contenuti, un broadcaster.
Quando è successo? Non c’è una data precisa, ma Instagram forse è stato lo spartiacque tra un mondo e l’altro. Poi è arrivato TikTok, che ha definitivamente ucciso i social network e decretato il trionfo assoluto dei social media. Su TikTok non ci connettiamo con le persone che conosciamo; piuttosto creiamo relazioni con persone di cui vorremmo seguire i contenuti. Per la maggior parte del tempo siamo esposti a un flusso continuo di video che vengono scelti per noi da un algoritmo.
I social media hanno creato il mito dell’influencer e l’hanno trasformato in un'aspirazione, specialmente per i più giovani (avete anche voi figli che vogliono fare gli YouTuber?). La celebrità dei social media sembra più facile, più raggiungibile, persino più democratica della celebrità tradizionale.
Ma è davvero raggiungibile e democratica?
Su YouTube, meno dell’1% dei creator attrae più di 100.000 iscritti ai propri canali;
su Twitch, l’1% dei creator genera oltre il 50% delle revenue dell’intera piattaforma (e i numeri sono simili anche su altre piattaforme di contenuto, come OnlyFans o Substack);
su Spotify, solo lo 0,2% dei circa 8 milioni di artisti fattura 50k o più all’anno e quasi l’80% degli artisti ha meno di 50 ascoltatori al mese.
I social media sono diventati piattaforme di intrattenimento, in cui pochi utenti concentrano la maggior parte delle visualizzazioni, degli ascolti, delle interazioni (e delle revenue) e sono a tutti gli effetti delle media company.
La relazione tra creatori e consumatori di contenuti su queste piattaforme è prevalentemente transazionale: infatti l’ossessione principale di chi crea contenuti è capire come a) aumentare il numero dei consumatori di contenuto, b) guadagnare da loro. Le community che nascono con i social media sono oggetti che qualcuno crea, fa crescere e cerca di monetizzare.
Flashback
Di contro, le comunità sono sempre esistite.
Nel suo celebre libro Sapiens, Yuval Noah Harari propone un racconto dell’origine dell’umanità che stravolge la narrativa a cui siamo stati abituati. Per un certo periodo, dice Harari, Neanderthal e Sapiens hanno convissuto. Poi i Neanderthal, che pure erano fisicamente molto più forti, si sono estinti. Come mai?
A quanto pare i Sapiens, a differenza dei Neanderthal, avevano un’abilità speciale: la capacità di costruire narrazioni e finzioni che avevano il potere di tenerli vicini, unirli intorno a uno scopo. Per dirla in un altro modo, i Sapiens avevano il potere di costruire delle comunità, basate su un racconto del mondo condiviso. È questa capacità che ha permesso loro di avere la meglio sui Neanderthal.
Le comunità sono sempre esistite, ma per migliaia di anni la loro espansione ha avuto un limite fisico: la geografia.
Internet e la globalizzazione hanno allentato questo vincolo, e i social network l’hanno definitivamente superato. Facebook nasce con l’intento di connettere tutte le persone del mondo. Non è un caso che Zuckerberg e gli altri magnati delle piattaforme realizzano progetti per portare Internet dove non c’è.
Eppure sono bastati poco più di 10 anni per accorgerci che il sogno di un’unica comunità globale era un miraggio, o comunque aveva un costo troppo alto. Da un lato perché le piattaforme che dovevano unirci hanno cominciato a dividerci; dall’altro perché abbiamo scoperto che per connetterci si prendevano in cambio un po’ troppe cose.
Dopo lo scandalo di Cambridge Analytica, Facebook cambia rotta. Non vuole più connettere tutto il mondo, ma permettere che nel mondo ciascuno trovi la propria comunità (o, per dirla alla Facebook, il proprio “Gruppo”). Bitcoin diventa mainstream, ma soprattutto si inizia a parlare della tecnologia che lo rende possibile - la blockchain - e delle sue potenzialità applicate in altri contesti oltre a quello monetario. L’economia delle piattaforme (o GAFAnomics, dalle iniziali dei quattro colossi più rappresentativi: Google, Apple, Facebook, Amazon) è in discussione. La nuova parola d’ordine è “decentralizzazione”: un concetto che ci proietta lontani dall’idea di un’unica rete (o comunità) controllata da pochi, verso una pluralità di reti (comunità) libere e indipendenti.
Siamo nella prima metà del secolo scorso quando, nelle sue riflessioni sulle forme di governo più antiche dell’Asia, Gandhi parla di autonomia e autosufficienza dei villaggi (quindi, delle comunità). E scrive:
My idea of Village Swaraj is that it is a complete republic, independent of its neighbors for its own vital wants, and yet interdependent for many others in which dependence is a necessity.
I membri del villaggio ideale, secondo Gandhi, si prendono cura di loro stessi, delle famiglie, dei vicini, degli animali, delle terre, delle foreste e di tutte le risorse naturali, per il beneficio delle generazioni presenti e future. I villaggi sono autonomi e indipendenti, connessi con gli altri villaggi in un ecosistema che provvede al sostentamento di tutti i suoi nodi solo quando è necessario.
A rileggerlo ora, non sembra parlare del passato; piuttosto è un bellissimo futuro preferibile per l’idea stessa di comunità.
Fast Forward
L’ultimo progetto di Kotler, Sarkar ed Enrico Foglia si chiama Regenerative Marketing Institute e sembra una visione contemporanea del villaggio ideale di Gandhi, oltre che essere il proseguimento naturale del loro lavoro sul Brand Activism.
La domanda alla quale i tre studiosi intendono rispondere è: “come fa un’organizzazione a creare valore non solo per sé stessa e i suoi shareholder, ma anche per la comunità”?
Risposta: deve diventare un’organizzazione rigenerativa – basata sul territorio, in grado di costruire la ricchezza della comunità alla quale fa riferimento, migliorare la coesione sociale e l’inclusività e creare un futuro più equo.
Oggi tutte le organizzazioni aspirano a creare la loro community: “abilitiamo x”, “facciamo empowering di y”. Per farlo, applicano uno schema di questo tipo:
Discovery: come faccio conoscere la mia proposta?
Engagement: come faccio interagire persone e organizzazione?
Membership: come faccio in modo che le persone tornino a connettersi e a interagire con l’organizzazione?
Con il risultato che molti tentativi di costruire una relazione con una comunità si fermano al primo step del processo e si riducono a inaugurazioni, eventi di lancio, promozioni e regali per i clienti.
La verità è che questo percorso è costruito al rovescio: dovremmo piuttosto partire dalla fine del processo e chiederci quale tipo di membership vogliamo realizzare, ovvero che cosa vogliamo che le persone provino, pensino e facciano nella nostra comunità?
Applicare questo approccio suggerisce già quale potrà essere il ruolo delle organizzazioni nella creazione o rigenerazione delle comunità. Le organizzazioni dovranno:
ispirare: accendere o risvegliare la passione per un desiderio collettivo coraggioso, proiettato verso il futuro;
supportare: dare alle persone risorse e strumenti per fare meglio ciò di cui hanno bisogno, oppure quello che già fanno per loro stesse, il proprio territorio, i vicini.
Questo futuro preferibile è già visibile oggi.
Qualche esempio?
Ci sono comunità che lottano contro lo spreco di cibo: Too Good To Go le ispira e le supporta a livello locale, mettendo in relazione persone e attività commerciali.
Ci sono professionisti esperti che dedicano ore del proprio tempo per fare da mentor a professionisti meno esperti: ADPList li ispira e supporta con una piattaforma che connette gli uni agli altri, per creare straordinarie occasioni di crescita umana e professionale.
In tutto il mondo i ciclisti sono accomunati dalla grande passione per la fatica e insieme la libertà che solo una bicicletta può dare: Strava li connette e usa i dati condivisi sulla sua piattaforma per ispirare e supportare gli urbanisti e i politici locali a riprogettare la viabilità a misura di bicicletta.
Nel nostro futuro preferibile parleremo meno di community e torneremo a parlare di comunità: più piccole, basate su relazioni significative e non sulle transazioni, con una vocazione rigenerativa del territorio e del tessuto sociale.
Le organizzazioni, spinte da un sincero desiderio di creare valore per la comunità alla quale si rivolgono, ispireranno le persone dando forma alla motivazione collettiva che le unisce, e le supporteranno con gli strumenti e le risorse di cui hanno bisogno.
Al prossimo futuro!
grazie! bello 🤩