In questa newsletter io e Paolo raccontiamo i nostri Futuri Preferibili in tre mosse: partiamo da qualcosa che accade nel presente, prendiamo la rincorsa nel passato e poi facciamo un salto nel futuro. Non per prevederlo, ma per provare a indirizzarlo.
Andiamo?
Noi siamo qui
La pubblicità è nociva per le persone e per la società? E chi si occupa di comunicazione fa ancora, nella sostanza, quello che ha sempre fatto la cara, vecchia, bugiarda pubblicità?
Il nostro amico Stefano ci ha inoltrato un interessante articolo di Luciano Floridi – datato ottobre 2021 – e ci ha sfidato a scrivere di questi temi. Abbiamo provato a rispondere col nostro metodo: parlando di futuro.
(A proposito: fate come Stefano! Scriveteci, mandateci domande e spunti, sfidateci: saremo felici di studiare un po’ e poi provare a costruire un futuro preferibile a partire dalle vostre domande).
Floridi dice che la pubblicità è un tipo di informazione alterata e disfunzionale, perché è una “risposta senza domanda”. Fornisce informazioni non richieste su cose di cui le persone non hanno bisogno. Dovendo rispondere a domande che non esistono, diventa sempre più aggressiva e rumorosa per ottenere l’attenzione delle persone. Fino a risultare dannosa e tossica per il discorso pubblico.
La definizione è intrigante e Floridi parte da una premessa condivisibile: la pubblicità appare spesso chiassosa, superflua, superficiale.
Anche gli addetti ai lavori convivono con il sospetto che la pubblicità faccia male, sia manipolatoria e inautentica.
Ma da dove viene questa convinzione? Perché molte persone sentono la pubblicità come ostile e nemica?
Flashback
La pubblicità come la conosciamo è il frutto di un preciso sistema economico di tipo industriale.
Un sistema lineare, scandito da passaggi molto netti: un’azienda crea un prodotto o un servizio, poi si impegna a distribuirlo e a venderlo, poi investe una parte del proprio budget per farlo conoscere e acquistare. Quindi deve, nel tempo, continuare a spendere risorse e denaro per difenderlo dai competitor.
Prima di Internet, le aziende potevano contare su tante barriere a difesa del proprio business. Ricordate le 4 P del marketing? Product, Price, Placement, Promotion: ogni passaggio era sentito come necessario e aveva un suo budget dedicato. Nessuno si sarebbe mai sognato di saltare o sostituire un anello della catena, facendosi domande come “in quella determinata località ci conviene aprire un negozio, oppure ci basta fare pubblicità”?
Poi sono arrivati internet e il digitale e la linea si è spezzata. Le diverse fasi si sono sovrapposte e hanno creato traiettorie imprevedibili. Ascoltiamo musica senza comprare nessun oggetto, guardiamo film senza andare al cinema e negli Stati Uniti SHEIN può competere con H&M e Zara senza avere nemmeno un negozio fisico.
Le barriere sono crollate ed è iniziata la guerra di tutti contro tutti, dove il fine ultimo è solo uno: arrivare al consumatore finale nel modo più breve ed efficace possibile.
Se è vero che è stato Internet a dare il via a questa guerra, è altrettanto vero che ci ha dato anche l’arma perfetta per vincerla: il performance marketing, ovvero l’insieme delle forme di promozione finalizzate a generare una reazione immediata da parte degli utenti – un acquisto, una sottoscrizione, un clic, un like. Nel performance marketing tutto è misurabile, economico, veloce e rassicurante. L’inserzionista paga sulla base dei risultati ottenuti; ogni messaggio è personalizzato e localizzato, cosa che ci permette di evitare un inutile dispendio di risorse.
Con il performance marketing la pubblicità si è trasformata definitivamente da strumento di marketing e brand building a strumento di vendita.
La caccia alla performance ci spinge a spendere sempre più risorse per conquistare le persone che possono comprare il nostro prodotto – o prodotti simili al nostro. Si cercano scorciatoie e sistemi di massimizzazione dell’attenzione che nuocciono alla creatività e tendono a standardizzare le azioni comunicative. Una tendenza che promette di essere ulteriormente acuita dall’impiego dei sistemi di intelligenza artificiale, che in questo ambito è – e sarà – massiccio.
Risultato: una pubblicità nemica delle persone, che per giunta non sempre funziona! Durante la pandemia, infatti, le aziende che hanno smesso di fare performance marketing non hanno registrato differenze significative nei risultati di vendita. Airbnb ha spostato buona parte del budget di marketing dalla performance al brand building – e a quanto pare ha fatto la scelta giusta.
Forse non c’è bisogno di censurare la pubblicità o limitare per legge i budget. Forse questa idea della pubblicità come strumento di vendita è destinata a estinguersi semplicemente perché non risponde più ai bisogni attuali. E forse è possibile pensare a un modo diverso di fare comunicazione, più utile per le aziende e più sostenibile per la società.
Fast Forward
Il punto è che nei contesti fluidi creati dal digitale la comunicazione diventa sempre più importante. È difficile pensare che si vada verso un mondo con meno advertising: gli investimenti probabilmente continueranno a crescere. Il problema è capire come farli crescere non solo quantitativamente, ma in modo qualitativo. Come passare da una comunicazione ossessionata dalla performance - che genera risultati effimeri solo sul breve periodo - a una comunicazione capace di raccontare davvero qualcosa, creare legami duraturi, restare memorabile sul lungo periodo?
Se per acquistare qualsiasi prodotto mi basta aprire Amazon, scegliere, pagare con due click e attendere 24 ore per vedermelo recapitato a casa, come farò a sapere se quel determinato prodotto è davvero quello che cerco, quello di cui ho bisogno?
Benedict Evans ha scritto che in un mondo in cui i processi lineari sono saltati, le categorie merceologiche sono sfumate e tutti competono con tutti, «everything is advertising, everything is brand and everything is about the story».
Nel nostro futuro preferibile sono le storie a prendere il posto della pubblicità. Storie dense, significative, che hanno a che fare sempre di più con la vita delle persone e sempre meno con la descrizione (o esaltazione) di prodotti e servizi. Sono le storie di cui sono fatti i brand destinati a durare e a diventare fenomeni culturali.
Alle organizzazioni, oggi, le persone chiedono soprattutto di saper costruire un mondo nel quale abbia senso vivere, fare esperienze, spendere tempo prima ancora che denaro. E i grandi brand sono impegnati soprattutto a comprendere le tensioni culturali che possono motivare i loro clienti futuri a entrare nel mondo narrativo che hanno allestito.
Siamo passati attraverso la disruption tecnologica e oggi di fatto tutte le aziende sono tecnologiche e digitali. Poi ci siamo interrogati sul valore del design e abbiamo capito che è molto meglio incorporarlo nel processo di creazione di un prodotto e servizio dall'inizio, piuttosto che ridurlo a styling alla fine del processo produttivo. Oggi entriamo nell’era della creatività, del brand e della storia. E invece che assumere un’agenzia creativa alla fine del percorso di ideazione di un prodotto, per aiutarci a venderlo o peggio, come dice Floridi, per far nascere una domanda che avevamo trascurato, concentrati com’eravamo a inventarci una risposta, coinvolgeremo i creativi all’inizio del percorso, per aiutarci a immaginare la nostra visione del mondo.
Tutto partirà dalla storia che vorremo raccontare e dai nostri clienti futuri: i prodotti e i servizi potremo addirittura pensarli dopo.
Proviamo a riformulare così il problema da cui siamo partiti: la pubblicità non è sbagliata perché è una risposta senza domanda, ma perché spesso è una risposta a una domanda schiacciata sul presente, o che viene dal passato.
Il nostro compito, invece, dovrebbe essere trovare risposte alle domande che provengono dal futuro.
Alla prossima!