In questa newsletter raccontiamo i nostri Futuri Preferibili in tre mosse: partiamo da qualcosa che accade nel presente, prendiamo la rincorsa nel passato e facciamo un salto nel futuro. Non per prevederlo, ma per provare a indirizzarlo.
Noi siamo qui
Chiusi nelle loro camerette. Persi negli schermi degli smartphone. Irraggiungibili e ineducabili. Protagonisti solo quando c’è da raccontare qualche brutta storia.
Salvo rare eccezioni, è così che rappresentiamo i giovani: come un problema da risolvere.
Questa rappresentazione, però, è miope e parziale. Lo ha ricordato qualche giorno fa con un bel post il nostro amico Angelo: i giovani non vanno ridotti al loro disagio. Se vogliamo capirli e aiutarli, dobbiamo riconoscerli come risorse attive, capaci di generare cambiamento e innovazione. Serve superare una visione clinica e paternalista, e lavorare per creare spazi concreti dove possano esprimere il loro potenziale.
Ci sbagliamo, ha detto Alessandro Baricco in un intervento recente, se pensiamo che i giovani siano scomparsi. Se pensiamo che si stiano sottraendo, che abbiano rinunciato a negoziare con gli adulti il loro posto nel mondo.
I giovani non sono spariti, si sono semplicemente mossi altrove. E negli ultimi vent’anni, senza chiedere permesso, hanno cambiato il mondo. Hanno svuotato il mondo che avevano ereditato dagli adulti, fatto di istituzioni pesanti e di pratiche culturali lente, per crearne uno più leggero, veloce, mobile.
Sono stati i giovani a trasformare il nostro modo di pensare, comunicare e creare cose nuove. Il mondo in cui viviamo oggi è, nel profondo, un mondo modellato dai giovani.
Flashback
Nel corso della storia ogni generazione ha guardato con sospetto a quella successiva, accusandola di essere pigra, irresponsabile o incapace.
Già nei testi dell’antica Grecia i precettori lamentavano la decadenza morale e intellettuale dei giovani. Negli anni Cinquanta i teenager che ballavano rock’n’roll venivano considerati moralmente corrotti. Negli anni Sessanta e Settanta chi si ribellava all’ordine costituito era trattato da fuorilegge. Negli anni ‘90 i pionieri di internet erano asociali che vivevano in un mondo virtuale. Nel 2010 i nativi dei social media erano narcisisti incapaci di relazioni autentiche.
Ogni volta i giovani non hanno fatto altro che mettere in discussione sistemi che non li rappresentavano più.
La rivoluzione digitale esplosa all’inizio del nostro secolo ha reso i giovani protagonisti di un cambiamento epocale. I dispositivi e le piattaforme che hanno cambiato la vita di tutti noi sono stati creati da dei ventenni. Ragazzini che hanno inventato nuovi linguaggi, hanno plasmato internet come spazio sociale e culturale, hanno reinventato il concetto di comunità. Hanno trasformato il nostro modo di creare e di apprendere.
Per edificare questo mondo, i giovani avevano bisogno di rinunciare a qualcosa, di lasciar andare alcuni dei valori che agli occhi degli adulti erano sacri. I formati digitali sono una metafora perfetta: rinunciare alla qualità e alla profondità, per guadagnare in agilità, rapidità e capacità di condivisione.
Ogni tecnologia nuova degli ultimi decenni è nata con l’obiettivo di ridurre il peso, aumentare la velocità, facilitare l’accesso.
Dove nasceva una nuova cultura fondata sull’accessibilità e sulla forza delle connessioni, però, il mondo degli adulti vedeva solo perdita e distruzione. E così le istituzioni educative hanno reagito irrigidendosi. Provando a restaurare modelli verticali, gerarchici, orientati alla performance e alla valutazione standardizzata. Un sistema che oggi non funziona più.
Fast Forward
Eppure sta succedendo di nuovo: scuole e università cercano di contrastare l’uso degli strumenti di AI da parte degli studenti. Tentano di reagire con i ban, le perquisizioni, i compiti scritti a mano e i software anti-plagio,
Non si accorgono però che i giovani stanno di nuovo scardinando le fondamenta del sistema educativo tradizionale. Nel momento in cui l’AI diventata il “sistema operativo” dell’esperienza formativa, spesso con risultati eccellenti, il problema non è più che i ragazzi “barano”: il problema è che il sistema di formazione e valutazione non è più adeguato.
Inoltre, per le nuove generazioni l’AI non è solo uno strumento di produttività, usato per svolgere compiti con minore fatica. Per molti è diventata un coach, un terapista, perfino un’amica.
Secondo un'indagine di Harvard Business Review, “therapy and companionship” è diventato il primo caso d’uso degli LLM per la Gen Z, scalzando dal primo posto la produttività. Questo uso include sia il supporto psicologico strutturato che le forme di compagnia emotiva e relazionale, anche con sfumature romantiche.
Nel frattempo il valore percepito dell’istruzione tradizionale sta diminuendo. Un recente sondaggio di Stagwell rivela che il 45% dei giovani della Gen Z ritiene che l’AI abbia reso irrilevanti i titoli universitari. Molti preferiscono percorsi alternativi, come le professioni artigianali o imprenditoriali, ritenuti più stabili e gratificanti.
Pensate a cosa è successo con la creator economy. Utilizzando i loro canali, i loro strumenti, i loro linguaggi, il loro modo di stare al mondo, le giovani generazioni hanno inventato un'intera economia, con previsioni di crescita vertiginose: il valore complessivo potrebbe superare i 500 miliardi di dollari entro il 2030.
Al di là del valore economico, la creator economy è una rivoluzione culturale, molto meno frivola di quello che gli adulti hanno pensato: ha permesso ai giovani di prendere in mano il proprio futuro, di riappropriarsi del lavoro come qualcosa di significativo, e di lavorare nel modo che preferiscono, con libertà e autonomia.
Insomma, ecco cosa stanno facendo i giovani:
stanno piegando le istituzioni educative, costringendole a cambiare metodi e approcci che probabilmente erano già superati prima dell’AI;
stanno esplorando una possibilità di uso dell’AI che va oltre la produttività e l’efficienza che ossessionano gli adulti;
stanno anche inventando modi nuovi di vivere e di lavorare, che spesso sfuggono ai nostri radar perché non assomigliano a nulla di ciò che avevamo previsto.
Forse vale la pena pensare a queste divergenze come ai primi passi di una direzione nuova. Per riuscire a percorrerla, dovremmo fare spazio al modo di sperimentare dei giovani. Perché in quella sperimentazione potrebbe esserci il germe di un cambiamento positivo per tutti.
Un posto pulito, illuminato bene è il titolo di un racconto di Hemingway citato da Baricco nel suo intervento sui giovani. Invece di continuare a dire ai giovani cosa dovrebbero e non dovrebbero fare, il nostro unico compito è quello di offrirgli proprio questo, “un posto pulito, illuminato bene”, dove possano costruire il loro futuro. Che poi è quello di tutti noi.
Come sempre commento ricopiando la scintilla che mi ha ispirato (S) e sotto la mia riflessione(R).
(S) Serve superare una visione clinica e paternalista, e lavorare per creare spazi concreti dove possano esprimere il loro potenziale.
(R) I giovani sono, per definizione, energia pura: vita, slancio, libertà compressa dentro confini imposti — e da lì nasce la creatività. Sono potenzialità allo stato grezzo, da accompagnare e incanalare. Noi, “giovani-passati”, possiamo portare in questa equazione il nostro contributo: l’esperienza. Con essa, possiamo coprogettare spazi reali e mentali, metodi e strumenti capaci di far emergere quel valore latente e trasformarlo in realtà.
(S) Ogni tecnologia nuova degli ultimi decenni è nata con l’obiettivo di ridurre il peso, aumentare la velocità, facilitare l’accesso.
(R) La tecnologia è l’espressione concreta di un bisogno biologico profondo: quello dell’organismo umano di ottimizzare il dispendio energetico. È la mente, in dialogo con il corpo, che cerca costantemente strade per rendere il vivere più efficiente.
(S) Nel momento in cui l’AI è diventata il “sistema operativo” dell’esperienza formativa, spesso con risultati eccellenti, il problema non è più che i ragazzi “barano”: il problema è che il sistema di formazione e valutazione non è più adeguato.
(R) Quando le regole esterne cambiano, l’unica via è tornare all’interno e riscoprire le proprie. L’HI (Human Intelligence) resta stabile: reattiva, risonante, analitica. Comprenderne i meccanismi è oggi più che mai essenziale per affrontare i cambiamenti con armonia. È per questo che sempre più spesso mi trovo a insegnare intelligenza umana e interazione digitale, proprio in contesti dove si lavora con l’intelligenza artificiale. Perché ogni evoluzione sostenibile parte dalla base: l’HI.
(S) Questo uso include sia il supporto psicologico strutturato che le forme di compagnia emotiva e relazionale, anche con sfumature romantiche.
(R) L’AI riduce il carico cognitivo dell’auto-esplorazione e rende il confronto con se stessi più sostenibile, soprattutto sul piano emotivo. Spesso, il dolore di un confronto umano-umano, anche con il terapeuta più attento, è legato alla percezione, inevitabile, di essere giudicati. L’AI, invece, si posiziona come facilitatore: aiuta ad estrarre, riorganizzare e restituire senso. E chissà, forse già oggi può rappresentare un primo passo preparatorio verso una relazione terapeutica ancora più profonda.
(S) “Un posto pulito, illuminato bene”, dove possano costruire il loro futuro. Che poi è quello di tutti noi.
(R) Questa chiusura è splendida. Aggiungo solo un tassello al mosaico: “un posto pulito, illuminato bene e ben connesso”. Connesso a cosa? Lasciamo a loro la scelta. Il nostro compito è offrire tutte le possibilità e fidarci che sapranno orientarsi.
Io ne sono sicuro e sono certo che lo siete pure voi
Rinunciare alla qualità e alla profondità non mi sembra del tutto positivo, comunque.