In questa newsletter io e Paolo raccontiamo i nostri Futuri Preferibili in tre mosse: partiamo da qualcosa che accade nel presente, prendiamo la rincorsa nel passato e poi facciamo un salto nel futuro. Non per prevederlo, ma per provare a indirizzarlo.
Andiamo?
Noi siamo qui
Siamo nati e cresciuti entrambi in un posto piccolo. Io (Matteo) in un comune della prima cerchia di Milano. Arrivato il momento di scegliere dove far crescere i nostri figli, con mia moglie abbiamo deciso di restare qui, di non spostarci a Milano. Davanti alla nostra casa c’è un viale con larghi marciapiedi, limite di velocità per le automobili a 30 km/h, un parco e una pista ciclabile: una cosa non così semplice da ritrovare a Milano. Oggi i nostri figli, appena possibile, ci chiedono di scappare da qui per andare in montagna, in un paesino sperduto della bergamasca dove i miei nonni hanno comprato una seconda casa quarant’anni fa. Se chiedo al più grande (7 anni) perché ama così tanto andare in montagna, mi risponde: perché mi sento libero. Ci sono moltissimi prati e sentieri, pochissime strade e macchine… Quando siamo lì permettiamo a nostro figlio di allontanarsi con i cuginetti anche per diverse centinaia di metri, per andare verso il piccolo paese dove tutti si conoscono.
Io (Paolo) sono nato a Todi, in Umbria, un posto che all’inizio degli anni Novanta la ricerca di un’università americana ha definito “la città più vivibile del mondo”. Noi non ce ne eravamo accorti, ma in effetti era uno di quei posti in cui bastava salire su una bicicletta per avere il mondo a portata di mano: la piazza, il parco, il campetto. Spesso spingendo poco più in là le nostre scorribande ci si ritrovava direttamente in aperta campagna. Oggi vivo a Roma e penso spesso a quanto sarà diverso il rapporto di mia figlia con lo spazio che la circonda.
Chi legge Futuri Preferibili sa che non sarebbe da noi fare l’elogio del paesino e dei bei tempi andati: le città sono lo spazio del futuro, lo spazio dell’opportunità e della scelta. È innegabile però che sempre di più sono posti che negano esperienze dello spazio come quelle che abbiamo conosciuto noi, o che i nostri figli conoscono appena li portiamo fuori. Gli spazi urbani di oggi sono pensati per le automobili e per i negozi, il che le rende ostili per i bambini. La maggior parte delle strade sono considerate pericolose, e “stare fuori” è diventata un’esperienza sempre più rara e complicata.
Uno degli ultimi numeri di Dense Discovery parla proprio di questo tema citando alcuni studi, come questo che afferma che oggi solo il 27% dei bambini gioca fuori casa, contro il 71% della generazione dei baby boomer. E questa mappa mostra come il range di esplorazione medio di un bambino di 8 anni sia passato dai 10 km di qualche generazione fa ai 300 metri di oggi.
Abbiamo reso i nostri bambini, e quindi noi stessi, prigionieri degli spazi in cui viviamo?
Flashback
Non c’è bisogno di essere nostalgici per guardarsi indietro e vedere la storia di un modo più libero di vivere gli spazi, anche in città. Lo spazio esterno è sempre stato l’orizzonte di crescita, per i bambini e per i giovani: la strada, la piazza, il cortile erano il luogo dell’incontro col mondo. Uscire equivaleva a conoscere. Da una certa età in poi, non c’era scoperta significativa che non avvenisse fuori.
Poi però le città sono diventate sempre meno ospitali. Sono state progressivamente occupate, colonizzate da edifici, infrastrutture e intere aree che semplicemente non sono progettate per gli umani. Abbiamo dato forma alle città che conosciamo seguendo principalmente due forze:
una logica della mobilità interamente basata sulle automobili, che, salvo rare eccezioni, ha penalizzato ogni altro tipo di trasporto, da quello pubblico e quello privato alternativo;
spazi interamente piegati alle esigenze del lavoro, della produzione e del consumo, dalle aree industriali pensate per ottimizzare la logistica, ai centri commerciali che hanno assorbito al loro interno lo spazio del movimento libero, tanto che sempre più persone li scelgono come luoghi della passeggiata.
Queste scelte hanno portato alla situazione che conosciamo ora: città degradate, affollate, inquinate. Città in cui vivere è sempre più complicato, in cui il costo della vita e la situazione abitativa sono fuori controllo. Città in cui gli incidenti sono all’ordine del giorno, e in cui aumenta continuamente la percezione di pericolosità degli spazi urbani.
Con l’aggravarsi poi della crisi climatica, gli eventi atmosferici estremi, come quelli cui purtroppo abbiamo assistito in questi giorni, si abbattono su spazi congestionati e messi in sofferenza da una cattiva manutenzione, che rendono i disastri naturali ancora più distruttivi.
Piogge, smottamenti, alluvioni, d’estate temperature proibitive: le città in cui (non) ci muoviamo attualmente sono minacciate anche da questo tipo di fenomeni.
Non può meravigliare allora che lo spazio della scoperta e dell’esplorazione si sia ristretto così drasticamente. Con il restringimento di questo spazio, però, rischiano di restringersi i confini del mondo, per i bambini ma anche per gli adulti. In un mondo in cui potenzialmente possiamo andare ovunque, essere ovunque, è abbastanza paradossale non poter andare fuori, non poter scendere sotto casa.
Fast forward
Nelle nostre esistenze digitalizzate non sono più soltanto i vettori fisici a dare forma alla città e al nostro modo di attraversarla. I fattori e gli attori che influenzano il nostro modo di muoverci sono molteplici: non soltanto i mezzi di trasporto in senso stretto, ma una concatenazione di servizi e possibilità che hanno un impatto sulla nostra esperienza del movimento, sulle nostre decisioni di spostarci o di non spostarci.
Amazon e Deliveroo, insomma, influenzano la nostra mobilità tanto quanto Atm e Atc. Zoom e Teams sono alternative a Italo e Trenitalia. Ed è considerando tutte le forze che agiscono insieme, e il ruolo che potrebbe giocare la tecnologia, che dobbiamo ripensare la mobilità, e immaginare il futuro preferibile del movimento.
Dobbiamo ripartire dalle domande che abbiamo smesso o evitato di farci, come ha fatto anche Seth Godin in uno dei suoi esperimenti mentali: che succederebbe se i mezzi di trasporto pubblici fossero gratuiti? Se i bagni pubblici fossero puliti e sicuri? Se ci fosse una tassa sugli spazi non utilizzati?
Cosa sarebbe successo, ci chiediamo, se le città non fossero state pensate solo per le automobili? Anche nella migliore delle ipotesi, che in parte è già in atto, ovvero il passaggio da una mobilità basata sui combustibili fossili alla mobilità elettrica, il problema della sostenibilità dei nostri spostamenti resta se non ripensiamo integralmente il nostro modello di movimento.
Il problema non si risolve sostituendo ogni singola auto a combustione con un’altra auto elettrica. Ci servono spazi progettati per favorire lo sviluppo di mezzi alternativi, proprio a partire dalla rivoluzione elettrica: biciclette, monopattini, e tutti i mezzi che saremo capaci di inventare.
Ma ci servono soprattutto idee e progetti capaci di cambiare la cultura e le abitudini delle persone, capaci di muovere le persone in direzioni diverse. Sul fronte dei mezzi pubblici, in Germania il progetto del “biglietto da 9 euro” consente a tutti di viaggiare illimitatamente sui trasporti regionali. Uno studio di TomTom a riguardo ha dimostrato come il livello di traffico sia diminuito in 23 delle 26 città esaminate, fino al 13-14% in meno.
In Spagna i treni attivi nelle “aree urbane e suburbane” sono gratis per tutto il 2023.
Alcuni Paesi europei stanno iniziando a rimediare ai disastri urbanistici fatti dal dopoguerra in avanti: la città di Utrecht, ad esempio, ha restituito alla popolazione il sistema dei canali urbani, che erano rimasti a lungo chiusi e inaccessibili, e in alcuni casi erano stati perfino asfaltati.
La tecnologia, dicevamo, offre piattaforme e risorse in grado di abilitare il cambiamento, e in grado anche di potenziare l’immaginazione: questo progetto sfrutta l’AI per re-immaginare strade e città senza automobili, e quindi progettare spazi pubblici più vivibili. Dopo l’ennesimo incidente mortale in bicicletta a Milano, il nostro amico e collega Graziano si è servito di Midjourney per re-immaginare il luogo dell’incidente.
In generale, per rendere una città davvero vivibile basterebbe riprogettarla a misura di bambino, o di anziano: se riescono ad accogliere le esigenze dei più fragili, le città saranno perfette anche per tutti gli altri. Anche perché i bambini non sono soltanto, come spesso diciamo, gli adulti di domani, i cittadini del futuro: sono, proprio come gli anziani, persone alle quali dobbiamo riconoscere il diritto pieno di vivere la città secondo le loro esigenze.
Attualmente invece i bambini sono sempre più prigionieri delle case, incastrati nelle auto o chiusi nei luoghi dell’educazione, sotto la stretta sorveglianza degli adulti. Ma l’educazione all’autonomia e alla libertà di esplorazione dello spazio è tanto importante quanto imparare a leggere, scrivere e contare. E il senso di sicurezza e la capacità di muoversi ha effetti decisivi sul benessere sociale e psichico di ragazzi e ragazze.
Nel nostro futuro preferibile dovremo cominciare a progettare spazi che restituiscono ai bambini il loro diritto al movimento, all’esplorazione, alla scoperta autonoma. Spazi sicuri e più accoglienti per i più piccoli, e quindi più vivibili per gli adulti.
Oppure abbiamo un’altra possibilità: continuare a lamentarci che i giovani non vogliono più muoversi. Che stanno tutto il giorno attaccati ai telefoni, ai tablet, alle tv, ai videogiochi. Che non hanno più nessuna voglia di uscire, incontrarsi, stare insieme fisicamente. Ma dove dovrebbero andare, se intorno gli abbiamo costruito un mondo insicuro e ostile?