In questa newsletter io e Paolo raccontiamo i nostri Futuri Preferibili in tre mosse: partiamo da qualcosa che accade nel presente, prendiamo la rincorsa nel passato e poi facciamo un salto nel futuro. Non per prevederlo, ma per provare a indirizzarlo.
Andiamo?
Noi siamo qui
In questi giorni lo Stato di New York ha lanciato la campagna We ❤️ NYC, rivisitazione di una campagna degli anni Settanta che è rimasta tra le più celebri della storia. Con l’originale la campagna di oggi condivide lo scopo: riaccendere l’ottimismo dei newyorkesi e mobilitare volontari per costruire una città più sicura, pulita, accogliente.
Mentre gli abitanti della Grande Mela si dividono tra fan e detrattori della campagna, e colgono l’occasione per ripetere tutto ciò che amano e odiano della loro città, in Italia prende vita una versione casereccia del dibattito americano, con protagonista l’unica città che per caratteristiche può essere paragonata a New York o alle altre grandi metropoli del mondo: Milano.
Il dibattito su Milano parte dalle statistiche sugli affitti delle case e tocca tutti gli aspetti della vita cittadina, dagli stipendi all’offerta lavorativa, culturale, ricettiva. Ne ha twittato Luca Sofri, si è scatenata Selvaggia Lucarelli, ne hanno scritto Il Foglio, Il Corriere e Rivista Studio (addirittura tre articoli: 1, 2, 3).
Come se non bastasse, l’ultimo singolo dei Baustelle, uscito mentre infuriava la polemica, è una sorta di celebrazione della città, ed è sembrato quasi una provocazione: Milano è la metafora dell’amore?
Circondati da tutto questo scrivere, parlare e cantare, potevamo forse esimerci noi dal partecipare al dibattito?
Flashback
Per la prima volta nella storia, più del 50% della popolazione mondiale vive in zone urbane – e questa percentuale è destinata ad aumentare nei prossimi anni. Accade così che la città perde progressivamente la sua natura di luogo, per diventare un non-luogo molto più orientato alle funzioni economiche che a quelle dell’abitare e della convivenza civile. Milano è la città più globale d’Italia, quella che incarna meglio questa trasformazione che è di matrice molto “americana”.
Non è un caso che per parlare di Milano abbiamo aperto con New York. Cinquant'anni fa New York era nel bel mezzo di una crisi economica e sociale. La produzione e le industrie si erano spostate fuori dai confini nazionali e la classe media si era rifugiata nei sobborghi. La campagna ideata da Milton Glaser, I ❤️ NY, era il tentativo di risvegliare il senso civico degli abitanti di New York per far sì che la città restasse un luogo ideale per vivere e lavorare.
Per certi versi le sfide di oggi sono ancora più complesse di quelle del passato. La rivoluzione tecnologica ha ampliato il gap delle competenze; il lavoro remoto ha sconvolto i ritmi della vita urbana; la sicurezza pubblica è riemersa come preoccupazione principale, intrecciata a problemi contigui come il disagio psichico, l’aumento dei senzatetto e la questione razziale. Affitti e prezzi delle case sono inaccessibili per molti attuali e aspiranti newyorkesi. E così la città torna a mobilitarsi con una nuova campagna, questa volta dal sapore ancora più collettivo, comunitario e inclusivo: We ❤️ NYC, una call to action ai cittadini per dimostrare che New York è ancora la più importante città del mondo.
Le difficoltà di New York sono le stesse che ha affrontato e sta affrontando Milano. Quando chiude el fabricon vanno in crisi i grandi protagonisti della vita pubblica cittadina, la classe operaia e la borghesia industriale. La nuova borghesia gestisce i flussi finanziari: lavora in città, ma non vive la città, a differenza dei “padroni” che intorno alle fabbriche costruivano la loro casa – e le case, i circoli, i servizi per gli operai. Alla nuova borghesia si affianca la classe creativa, dell’intrattenimento e dello spettacolo: architetti, ingegneri, legali, designer, professionisti della comunicazione, della pubblicità, dell’editoria, della moda, della ristorazione… Sono le élite delle professioni intellettuali, che trovano nella dimensione metropolitana di Milano il loro luogo ideale.
Ma se per queste nuove forze del terziario Milano rappresenta la città delle opportunità, per altri è una condanna, la città dove tutto – abitare, vestirsi, mangiare, sopravvivere – è diventato ormai estremamente costoso, complicato, insostenibile.
Negli ultimi quindici anni Milano è cresciuta accogliendo stranieri, giovani e studenti che hanno contribuito a dare una nuova vivacità culturale e commerciale alla città. Ma il modello abitativo costruito su questa vivacità, in cui il 40 per cento degli acquisti immobiliari hanno finalità di investimento, ha come effetto quello di trasformarla in una città per pochi, che esclude i cittadini stessi.
Milano come New York, quindi?
Sì e no, perché se è vero che, con le dovute proporzioni, possiamo parlare di sfide simili per le due città, è anche vero che Milano resta una città italiana, dove la dimensione economica si intreccia senza rotture con quelle del territorio e della famiglia. Il capitalismo delle multinazionali si intreccia con quello familiare e territoriale delle medie imprese di stampo italiano: l’azienda è il frutto della storia e del lavoro dell’imprenditore, ma anche della sua famiglia e della sua comunità.
Come evidenziano due docenti della Bocconi, Fabio Quarato e Carlo Salvato, nella loro ricerca “La resilienza delle imprese familiari e delle famiglie imprenditoriali”, le aziende di proprietà di una famiglia hanno reagito meglio alla crisi provocata dalla pandemia. Perché? Proprio perché c’era la famiglia, che ha salvaguardato i livelli di occupazione, ha spinto sull’innovazione, ha guardato a nuovi mercati sfruttando la maggiore flessibilità di un’impresa di medie dimensioni rispetto ai colossi. L’imprenditore deve sempre cercare l’opportunità, soprattutto nella crisi, gestendo l’imprevisto e amplificando la resilienza dell’impresa.
La proprietà familiare, che certo è cambiata – accettando i manager e i capitali esterni e abbandonando legami e intrecci con le banche e la politica – è un nuovo fattore di dinamismo, non più una zavorra.
E l’azienda familiare ha un’innata e tradizionale responsabilità sociale, così come un forte rapporto con il territorio; il suo modello si presta a coniugare sapientemente profitto, cooperazione e mutualismo.
Fast forward
Arriviamo al nostro futuro preferibile, per Milano, ma anche per tutte le città che con Milano condividono o vorrebbero condividere una vocazione di città globale. La sfida è riuscire a trasformare in valori sociali condivisi la modernità che avanza inesorabile. La stessa modernità che, coi suoi slogan markettari e l’hype permanente, rende Milano oggetto di scherno e di invidia, di prese di distanza e tentativi di imitazione. E a volte sembra non lasciare scampo a chi non si adegua, o resta ai margini.
Come può la città aprirsi ai flussi globali, senza però esserne invasa, senza essere costretta a sacrificare la storia e l’identità dei suoi cittadini e dei suoi luoghi?
Per prima cosa, con buona pace dei milanesi, iniziamo a considerare che Milano si estende ben oltre i confini della sua circonvallazione esterna o delle sue tangenziali. Questa estensione deve avere un impatto sulla pianificazione urbana, ma anche su quella sociale e culturale, che devono necessariamente spostarsi a livello sovracomunale.
Il tema è politico. Milano lascia indietro le proprie periferie, e le periferie rispondono allontanandosi da Milano e dalla sua mentalità: si spiegano anche così i rovesciamenti politici apparentemente inspiegabili, come quello di Sesto San Giovanni, la Stalingrado d’Italia, storico motore dell’industria milanese, che dopo 70 anni di amministrazioni di sinistra passa alla destra. È come se i luoghi, e le comunità, sentissero lo scollamento, la mancanza di una prospettiva di crescita condivisa, e reagissero richiudendosi in una propria dimensione più ristretta. Come se sentissero di non poter stare al passo della corsa di Milano, e la lasciassero andare da sola.
Ma il compito di Milano dovrebbe essere proprio quello di camminare insieme al resto del territorio, e coinvolgerlo in un avanzamento comune. Milano deve trasformarsi in piattaforma, non solo economica, ma sociale e politica. Ha bisogno di ricostruire i luoghi del dibattito pubblico, i luoghi della partecipazione e della convivenza. Deve trovare una sua nuova dimensione collettiva e dovrebbe farlo ripartendo dal basso, proprio dagli stranieri, dai giovani, dagli studenti che hanno contribuito a renderla grande negli ultimi anni.
In questo, l’impresa familiare può dare una mano, contribuendo a creare quello che alcuni chiamano Capitalismo di Comunità. Nella città metropolitana che si estende ben oltre i confini del comune di Milano, le piccole e medie imprese potrebbero agire sinergicamente, come una grande piattaforma di impresa sociale. Secondo un modello non troppo diverso da quello del colosso cinese Haier, che è diventato un ecosistema distribuito di microimprese indipendenti, il cui successo è dovuto al forte radicamento nella comunità dei loro clienti e stakeholder.
L’impresa di domani, specialmente dopo la crisi pandemica, non può prescindere dalla prossimità e dalla capacità di costruire valore per i luoghi e il territorio. In questo senso la politica dovrebbe lasciarsi alle spalle decenni di incomprensione, e vedere l’imprenditoria per quello che è: uno straordinario alleato. Capace di aiutarla a ricostruire legami, relazioni e senso di appartenenza.
Infine, il compito di continuare a costruire una dimensione sociale e comunitaria per Milano spetta a noi cittadini, specialmente a chi lavora con la creatività. Il coro di indignazione per le condizioni della città, da cui siamo partiti, proviene spesso proprio dalla classe creativa, che da un lato è il target della gentrificazione che denuncia, dall’altro sembra subirla senza trovare la forza di organizzare una risposta che sia all’altezza della denuncia.
Se è vero che Milano è la città dei creativi, usciamo dalle logiche della lamentela e dell’immobilismo. Non tanto per tornare sempre alla famosa citazione di Kennedy - “Chiediti cosa puoi fare tu per il tuo Paese…” - ma perché una rinascita condivisa ha bisogno dell’apporto di tutte le intelligenze della città. La natura della creatività è trovare soluzioni originali e innovative ai problemi, trasformandoli in opportunità. Quando torneremo a farlo, sul piano individuale e collettivo, le nostre vite saranno migliori. E lo sarà anche Milano.