In questa newsletter io e Paolo raccontiamo i nostri Futuri Preferibili in tre mosse: partiamo da qualcosa che accade nel presente, prendiamo la rincorsa nel passato e poi facciamo un salto nel futuro. Non per prevederlo, ma per provare a indirizzarlo.
Andiamo?
Noi siamo qui
Il Futuro Preferibile di questa settimana inizia con un ringraziamento speciale a Mariano, che ci ha fatto scoprire Ok Boomer!, la nuova newsletter di Michele Serra sul Post.
Due settimane fa Serra ha scritto un pezzo molto bello sul rapporto tra esseri umani e lavoro. Serra descrive bene quello che il lavoro ha significato a lungo per gli umani: non solo uno strumento per il sostentamento e la sopravvivenza, ma una forma di “salvazione” (la parola è di Primo Levi), riscatto individuale e collettivo, formazione di sé, creazione di identità, soddisfazione del “pensare con le mani” e del risolvere problemi.
Questa idea del lavoro portava con sé, ricorda Serra, una valutazione positiva della fatica, dell’impegno, perfino del sacrificio: la fatica fisica e intellettuale era la prova da superare per far nascere l’individuo.
Agli occhi delle generazioni più giovani, invece, l’elogio della fatica sembra un inganno, una menzogna che ci siamo raccontati per rendere accettabili condizioni di lavoro spesso molto pesanti, quando non inumane. Negli ultimi anni moltissimi lavori si sono dequalificati, e le persone hanno risposto affermando che il lavoro non è tutto, che non è attraverso il lavoro che si definisce la propria identità, che di fronte alla proliferazione di lavori degradanti e non soddisfacenti, tanto valeva lasciar perdere. Non lavorare proprio, oppure fare il minimo indispensabile per il sostentamento, e poi occuparsi d’altro.
Dopo questa rottura epocale, che futuro possiamo immaginare per il lavoro?
Flashback
La storia del lavoro è la storia delle organizzazioni: perché lavorare significa sempre, direttamente o indirettamente, avere a che fare con le organizzazioni, più o meno complesse. E perché sono state alcune grandi organizzazioni, nel corso dell’ultimo secolo, a dare forma al lavoro, a definire le sue modalità, e quindi a influenzare il nostro rapporto con il lavoro.
Nei primi anni del Novecento Henry Ford e i suoi ingegneri inventano la catena di montaggio. L’esperienza di Ford ha le sue radici nel pensiero di Frederick Taylor e, ancora prima, di Adam Smith, che nel primo capitolo del suo The Wealth of Nations aveva parlato di divisione del lavoro. Facendo l’esempio della manifattura degli spilli: per produrre uno spillo servono 18 operazioni distinte. Dividendosi queste operazioni, 10 persone senza particolare addestramento riescono a produrre 48.000 spilli al giorno. Se invece lavorassero separatamente l’uno dall’altro, ciascuno potrebbe fabbricare al massimo 20 spilli al giorno. Ma anche nessuno, in assenza di abilità e competenze individuali.
Applicando i principi teorici di Smith e Taylor, Ford riesce a ridurre drasticamente il costo e il prezzo di vendita delle sue auto, portandolo da più di 2.300 a 360 dollari.
La produttività della fabbrica, che fino ad allora era direttamente collegata alle abilità degli operai, ora viene determinata soltanto dalla velocità del nastro trasportatore.
Il turnover non è un problema, perché la catena permette l’impiego di lavoratori privi di ogni esperienza di fabbrica. Diventa un problema, al contrario, la parcellizzazione non soltanto del lavoro, ma dell’essere umano. Con l’organizzazione scientifica il lavoro perde la sua dimensione manuale e creativa: gli operai sono obbligati a specializzarsi nel seguire il ritmo del nastro, eseguendo sempre gli stessi movimenti. La persona viene ridotta a una sola mansione e quindi fondamentalmente disumanizzata.
L’alternativa al modello occidentale del Fordismo viene dal Giappone. Intorno alla metà del secolo scorso la Toyota introduce il Toyota Production System (TPS), conosciuto anche come lean manufacturing: un modello di organizzazione del lavoro basato sul principio del “fare di più con meno”, eliminando sovraccarichi e sprechi. L’obiettivo è raggiungere il kaizen, il miglioramento continuo: nella qualità dei prodotti, e nell’efficienza della produzione.
Nel TPS l’essere umano ha un ruolo centrale. Uno dei concetti chiave del modello Toyota è il Jidoka, un termine giapponese che può essere tradotto con “automazione intelligente”: un metodo per identificare e correggere velocemente ogni possibile problema che può causare difetti nei prodotti o nel processo. In ogni momento della produzione ogni persona impiegata può tirare una cordicella e arrestare l’intera linea, per evitare che il problema abbia ripercussioni sui passaggi successivi. La produzione non riparte fino a quando il problema non è risolto.
A ciascun lavoratore viene data piena visibilità del proprio ruolo all’interno dei flussi di produzione. Tutti hanno obiettivi chiari e misurabili, ricevono feedback continui dai loro leader, sono invitati ad avere un approccio critico ai problemi e tendono a essere più innovativi, perché sanno che l’errore è tollerato.
Il metodo Toyota ha avuto tanto successo da ispirare perfino l’organizzazione e la gestione delle startup tecnologiche. Nel suo The Lean Startup, Eric Ries spiega in che modo le startup possono ridurre i rischi in fase di lancio di un prodotto o di un nuovo business: avere una visione chiara della big picture, sperimentare continuamente, misurare sempre e non aver mai paura del fallimento sono i mantra di ogni startup occidentale nata negli ultimi 15 anni.
Ma all’inizio del ventunesimo secolo una terza, grande organizzazione si affaccia nel panorama mondiale per dare il suo contributo alla definizione del lavoro, proponendo una visione alternativa a quella di Ford e Toyota. Si tratta della cinese Haier, che sotto la guida del fondatore e CEO Zhang Ruimin inventa il modello conosciuto come Rendanheyi.
Rendanheyi è una parola composta: ren si riferisce ai dipendenti; dan ai clienti, che per Haier sono utenti; e heyi significa connettere dipendenti e utenti allineando il valore creato dagli uni con quello percepito dagli altri. Se il modello Toyota significava zero difetti, il modello Haier significa zero distanza tra le persone: quelle che creano i prodotti, e quelle che li usano. Oggi Haier è un ecosistema di circa 4.000 micro imprese guidate dai dipendenti stessi, che diventano imprenditori.
Ford e Toyota chiedevano alle persone di identificarsi con l’organizzazione. Haier chiede ai suoi dipendenti di “identificarsi con sé stessi”, e quindi di auto-realizzarsi nell’imprenditoria. I dipendenti di Haier sono autonomi, non sono controllati dall’azienda: dipendono direttamente e soltanto dal mercato, che li premia con il profitto in caso di successo, o al contrario sancisce il loro fallimento. Ogni microimpresa è libera di auto-definirsi, auto-organizzarsi e determinare il proprio percorso evolutivo.
Fast forward
Oggi il modello organizzativo di Haier – basato sulla decentralizzazione e creazione di micro-community, sulla riduzione della distanza tra l’azienda e i suoi utenti e sull’imprenditorialità diffusa – è guardato con interesse e adottato sempre di più dalle organizzazioni (Corporate Rebels le sta mappando da qualche anno).
Se guardiamo con attenzione al percorso che ha portato al modello organizzativo di Haier possiamo provare a definire qualche ipotesi sul futuro del lavoro, o meglio: del nostro modo di vivere e di percepire il lavoro.
Nel dopoguerra abbiamo dovuto sopportare la deumanizzazione delle catene di montaggio per avere la sicurezza di uno stipendio. Ci è voluto poco perché cominciassimo a protestare, a scioperare, a produrre, come scrive Serra, “pensieri e arte contro il lavoro come gabbia dalla quale evadere”. Ci siamo accorti, ancora con Serra, che “il lavoro non è più così determinante nella formazione dell’identità, nell’immagine che ciascuno ha di se stesso. Conta di meno. Conta vivere – e vivere e lavorare non sono più la stessa cosa.”
L’espressione work-life balance, comparsa alla fine degli anni Settanta, non indica soltanto l’equilibrio tra il lavoro e la vita personale: sancisce in modo netto la separazione dell’uno dall’altra. Una separazione minacciata dalla diffusione della tecnologia, che fa uscire il lavoro dall’ufficio per invadere gli spazi – e gli orari – fino ad allora riservati alla vita privata.
Fino a oggi il work-life balance è stato l’unico antidoto possibile alla hustle culture, il fenomeno del lavoro ininterrotto, dominante soprattutto in alcuni settori (la finanza per esempio, ma anche la tecnologia – assolutamente da vedere a questo proposito la serie WeCrashed sull’ascesa e il declino di WeWork).
Come abbiamo visto però, il problema del lavoro non è il lavoro, ma il modo di organizzarlo. A renderlo tossico è uno stile manageriale che si insinua nella nostra vita privata servendosi anche della tecnologia per tenerci sotto controllo, darci delle regole, farci accedere solo alle informazioni strettamente necessarie per eseguire i nostri compiti.
La pandemia e il lockdown hanno mostrato che si può lavorare in un modo diverso, più efficiente proprio perché più autonomo – e in più lasciando spazio per quello che amiamo fare.
Da questa consapevolezza deriva anche la decisione, presa da moltissime persone nel mondo, di lasciare il proprio posto di lavoro. Il fenomeno che i giornali chiamano Grandi Dimissioni probabilmente è il sintomo di domande più profonde che hanno cominciato ad affiorare nella testa degli umani: “che cosa stiamo costruendo? Che cosa vogliamo fare con le nostre vite?”.
Le persone probabilmente non vogliono “separare” vita e lavoro, renderle due esperienze del tutto distinte. Separarle è impossibile, e forse non ha nemmeno senso. Piuttosto ha senso prendere il controllo sul lavoro e trasformarlo in un’esperienza di vita, una di quelle che facciamo perché ne abbiamo voglia o ne sentiamo il bisogno, perché ci insegnano qualcosa sul mondo e ci aiutano anche a conoscere meglio noi stessi.
La traiettoria che va da Ford a Haier suggerisce che il futuro del lavoro non sarà più definito dalle grandi organizzazioni che lo gestiscono, ma da noi, dalla comunità di chi lavora. Sceglieremo un lavoro per il suo valore come esperienza di vita, per il grado di autonomia che ci consentirà di esercitare, per la sua capacità di metterci in connessione con altre persone con le quali crescere, imparare, migliorarci.
Le organizzazioni saranno costrette a trasformarsi, abbandonando i sistemi basati sull’estrazione di valore dalle persone (non a caso i dipendenti di un’azienda si chiamano “risorse umane”). Nel nostro futuro preferibile organizzazioni e lavoratori creeranno un equilibrio in grado di garantire il massimo dei benefici a entrambe le parti. Le organizzazioni daranno alle persone autonomia, divideranno con loro i profitti, rimuoveranno la burocrazia, la gerarchia, il controllo e ogni altra barriera alla crescita individuale. E i lavoratori le premieranno con il massimo della creatività, immaginazione e intraprendenza per farle diventare grandi e costruire il loro futuro.
Dal work-life balance, insomma, andremo verso una nuova work-life alliance: dal bilanciamento e dalla separazione, all’alleanza tra vita e lavoro.
Forse davvero non serve tornare all’idea del lavoro come fatica necessaria per arrivare alla salvazione di sé. Forse basta riuscire a pensare al lavoro come scelta per arrivare all’invenzione: di sé, del mondo, delle relazioni con gli altri.
Ho sempre pensato che l'equilibrio vita-lavoro fosse uno tentativo faticoso e poco soddisfacende perché mi ha sempre restituito l'immagine di una persona su un filo che in uno sforzo sovraumano prova a tenere separate le cose (e se non ce la fa cade e si fa male). Preferisco l'idea di armonia, quella musicale che si costruisce con toni, suoni, strumenti e infinite variazioni e mi piace moltissimo il conceto di alleanza. Separare vita lavoro è impossibile perché volenti o nolenti la vita è una sola quindi occorre solo decidere se fare gli equilibristi oppure guardare il lavoro non come senso della vita ma come uno dei luoghi in cui la vita stessa si può esprimere. Certo bisogna non essere soli. Vi leggo e imparo. Grazie
Grazie! Ho trovato una circolarità fra la visione finale che avete tratteggiato e la parola impegno. Perché di impegno si tratta anche, se non di più, quando si lavora sullo sviluppo del proprio spirito imprenditoriale e nell'invenzione di sé. Mi avete fatto riflettere su quanto sia stato diverso l'impegno che ho profuso nei dieci anni di start up, lavorando 18 ore al giorno, 7 giorni su 7, nei miei anni giovanili e l'impegno con cui sto ricostruendo la mia lavorativa da freelance, dopo aver dedicato diversi anni alla maternità, alla soglia dei 50 anni. Solo questo ultimo tipo di impegno mi fa sentire realizzata, pure nella differente capacità economica.