Vero o falso? Utile
Il futuro dell’informazione non sarà una battaglia per la verità, ma per il senso
In questa newsletter raccontiamo i nostri Futuri Preferibili in tre mosse: partiamo da qualcosa che accade nel presente, prendiamo la rincorsa nel passato e facciamo un salto nel futuro. Non per prevederlo, ma per provare a indirizzarlo.
Noi siamo qui
A inizio 2024 un libro misterioso inizia a circolare tra filosofi, critici e lettori curiosi. Si intitola Ipnocrazia e porta la firma di Jianwei Xun, filosofo cinese che vive a Singapore.
Il libro espone una tesi affascinante: viviamo in uno stato di coscienza alterata, una condizione in cui la realtà viene manipolata in modo sistematico e continuo da media, politica, algoritmi. L'informazione non descrive più il mondo: lo costruisce con logiche irrazionali simili a quelle dei sogni.
Recensioni entusiaste, dibattiti accesi, un nome che rimbalza tra redazioni e newsletter. Poi, qualche giorno fa, la rivelazione: Jianwei Xun non esiste. È una finzione, un fantasma, un “dispositivo” generato da Andrea Colamedici, filosofo ed editore, con l’aiuto dell’intelligenza artificiale.
La notizia fa molto discutere. Alcuni non la prendono bene.
“Ero convinta di comprare il pensiero di un essere umano. Invece ho comprato un algoritmo”, commenta Giulia Blasi, che dice di sentirsi truffata. Colamedici rivendica l’esperimento come un gesto filosofico e una riflessione su pericoli e potenzialità dell’intelligenza artificiale.
Nel frattempo, nell’arena pubblica compaiono altri esempi: un deepfake di Alessandro Barbero che dice cose mai dette, un corto realizzato con l’AI candidato ai David di Donatello.
L’illusione e la manipolazione sono diventate mainstream, e a noi non resta altro che assistere impotenti o indignarci.
O forse no.
Flashback
La tensione tra verità e finzione non nasce con ChatGPT: è piuttosto il fondamento stesso della cultura occidentale.
Platone diffidava dei poeti, perché capaci di rappresentare il falso in modo così convincente da offuscare la verità. Ma proprio nella capacità di “inventare la realtà” sta la funzione conoscitiva dell’arte: attraverso la finzione possiamo accedere a verità più profonde e universali.
La finzione ci permette di arrivare alla verità in modi indiretti, trasversali. La letteratura, il teatro, la filosofia, il cinema sono forme finzionali che ci aiutano a pensare al di là del già pensato, a vedere al di là del visibile, a comprendere quello che non sembra comprensibile.
Dante non ha scritto La Divina Commedia per spiegarci com’è fatto davvero l’inferno, ma per condividere la sua visione radicale dell'esistenza umana. I romanzi moderni sono pieni di autori fittizi, di testi anonimi, di storie impossibili, di mondi assurdi creati per dire e capire qualcosa in più, qualcosa che non si sarebbe potuto dire e capire “dicendo la verità”.
Se non potessimo “fare finta che…” non potremmo fare ipotesi, immaginare scenari, costruire strategie, scrivere Futuri Preferibili…
La post-verità è sempre esistita, e si afferma ogni volta che scegliamo di credere a una narrazione perché ci rassicura, ci unisce, ci orienta.
Come ha detto Yuval Noah Harari in una bella intervista a Wired Japan, ciò che rende possibile la cooperazione umana su larga scala non è la verità, ma la fiducia. E la fiducia si costruisce attraverso le storie.
Eppure oggi qualcosa è cambiato in modo irreversibile: per la prima volta condividiamo il pianeta con entità non umane capaci non solo di raccontare storie, ma di crearle, selezionarle e distribuirle meglio di noi. L’intelligenza artificiale non è più uno strumento: è un attore, un agente narrativo.
In passato erano gli esseri umani a decidere cosa raccontare, come raccontarlo e a chi. Oggi sono reti di modelli linguistici a decidere cosa ci raggiunge, in quale forma e con quale intenzione. E queste reti non hanno interessi umani, né responsabilità sociali; non hanno corpo, non hanno contesto; non si ammalano se le fogne collassano. Non soffrono se le democrazie si indeboliscono.
Il risultato, dice Harari, è che rischiamo di vivere in un mondo in cui la nostra capacità di comprendere ciò che accade si dissolve. Non capiremo più il funzionamento delle decisioni politiche, dei mercati finanziari, delle strutture sociali. Come cavalli che non sanno chi guida la carrozza.
E se non capiamo più il mondo, non possiamo più cambiarlo.
Fast Forward
Il problema però è che a toglierci agency non è la finzione. Ma la nostra nostalgia per un’idea di verità che non è mai esistita davvero.
Harari ci ricorda che l’informazione non serve a dire la verità: serve a connettere. E serve ad agire.
Per connetterci, collaborare e agire non potremo fare a meno della finzione, che è spesso meno costosa, più semplice e più convincente.
Allora forse la domanda che dobbiamo imparare a farci non è: “È vero o falso?”. La domanda giusta è: “Ci serve?”. Non ci chiederemo più “chi ha scritto questo testo?”, ma “in che modo questo testo mi cambia?”
Ipnocrazia, in fondo, ci è servito. Ha fatto discutere, ha acceso pensiero critico, ha generato senso. Non importa da dove viene, ma quello che ha provocato. E qui sta la chiave del nostro futuro preferibile: imparare a valutare una storia non in base alla sua origine, ma in base alla sua utilità cognitiva.
Un contenuto non è rilevante perché è firmato da un umano: è rilevante se ci spinge a cambiare prospettiva, se ci apre uno spazio nuovo, se ci fa vedere qualcosa che prima non c’era.
Questo non significa rinunciare alla ricerca della verità. Significa però abbandonare il mito che la verità sia sempre lì, evidente, pronta da afferrare. Nel mondo che stiamo costruendo, la verità sarà sempre più una questione di traiettoria: qualcosa che non si possiede, ma verso cui tendiamo, come il nord per i navigatori. Una costruzione sempre in progress.
In questo scenario la finzione diventa un alleato, una strategia, uno strumento di esplorazione.
Per usarla al meglio, dobbiamo sviluppare un senso critico nuovo, capace di riconoscere non il timbro dell'autenticità, ma il valore trasformativo di una narrazione. Una storia è utile se ci connette, ci orienta, ci spinge ad agire in modo più lucido e responsabile. È dannosa quando ci anestetizza, ci divide, ci deresponsabilizza.
Il vero rischio non è vivere immersi nella finzione. Il vero rischio è perdere la capacità di comprendere perché una storia ci colpisce, perché un messaggio ci coinvolge. Se smettiamo di porci queste domande, consegniamo le chiavi della nostra coscienza agli algoritmi, che oggi sono progettati per massimizzare l’engagement diffondendo contenuti che alimentano rabbia, desiderio, indignazione.
Ma cosa succederebbe se cambiassimo l’obiettivo? Se orientassimo gli algoritmi non verso l’engagement, ma verso l’affidabilità, l’impatto positivo, la capacità di rafforzare i legami sociali?
L’unico modo che abbiamo per farlo, è continuare a raccontare e farci raccontare storie. Cercando in ogni storia non una “certificazione d’origine controllata”, ma l'utilità. Utilità culturale, sociale, politica. Una storia sarà buona se ci aiuta a fidarci di più gli uni degli altri, a capire meglio, ad agire con maggiore consapevolezza.
Per questo il nostro compito non è combattere la finzione.
È orientarla verso scopi migliori.
Sempre di più le macchine saranno capaci di raccontare storie che ci sorprendono.
Starà a noi scegliere le storie che ci servono.
Paolo sarà uno dei docenti del master in Branding e Visual Design organizzato da Talent Garden in collaborazione con Subsense, ideato e coordinato da Pietro che è l’autore di tutte le cover di Futuri Preferibili. Qui parliamo spesso di formazione, apprendimento, branding e potere delle storie. Il master sarà un’occasione per mettere alla prova le nostre idee, e condividerle con chi sta affrontando un percorso di crescita.
Altra bellissima newsletter. Credo però sia importante una distinzione: la post-verità è un fenomeno nuovo perché è una forma di finzione che passa per verità fattuale in un mondo dove la verità fattuale è utilizzata come la finzione: per connettere. La finzione è sempre esistita, ma in un mondo dove si cercava anche una verità fattuale ed entrambe esistevano con funzioni e perimetri chiari, anche nella mente di chi le confondeva per ignoranza o convenienza. Un mondo dove tutto (finzione e verità fattuale) viene usato solo per connettere ed è “utile”, è un mondo dove le distanze tra le posizioni (storie identitarie e identità) tende a diventare incolmabile. Dove si parla senza capirsi né ascoltarsi. Un mondo dove una dittatura totalitaria non avrebbe bisogno di mentire per mobilitare, le basterebbe mantenere una storia forte, con l’aiuto di molti. Un mondo dove una cosa come il nazismo sarebbe più grande, più stabile e più capillare
Mi avete ricordati Galimberti che diceva (riparafraso...): "Amore deriva dal greco "a" che è privazione e "mortis", quindi privo di morte, in assenza della morte. Bello vero?!? E la cosa più bella è che me la sono inventata, e ciò che conta è che piaccia e che ispiri".
Più o meno erano queste le sue parole.
Se ci pensate, quando siamo piccoli, impariamo la realtà danzando tra la sperimentazione atraverso i 5 sensi con essa e la visualizzazione, immaginazione e il gico del "facciamo finta che...".
La nostra natura impone la danza tra vero e falso sul fulcro dell'utilità. Ciò che conta è ciò che serve, a noi, per vivere bene e al meglio, in armonia, con noi stessi, gli altri e il mondo. L'utilità è sempre stata al centro della nostra evoluzione, siamo noi che abbiamo costruito una romantica verità cangiante e dimentica per rendere tutto più sostenibile.
Complimenti, come sempre, per i vostri scritti e gli spunti che nascono.
Grazie!