In questa newsletter io e Paolo raccontiamo i nostri Futuri Preferibili in tre mosse: partiamo da qualcosa che accade nel presente, prendiamo la rincorsa nel passato e poi facciamo un salto nel futuro. Non per prevederlo, ma per provare a indirizzarlo.
Andiamo?
Noi siamo qui
La scorsa settimana si è parlato molto delle dimissioni di Jacinda Ardern, prima ministra neozelandese che ha lasciato il suo incarico con nove mesi di anticipo. La notizia ha sorpreso tutti perché Ardern era diventata una sorta di icona: apprezzata per il suo stile e la gestione responsabile della pandemia, aveva raccolto un grande consenso interno e globale. Ma soprattutto perché le dimissioni non sono arrivate per motivi politici: Ardern ha dichiarato di non avere più energie per continuare a svolgere il lavoro che le era stato affidato.
Non è il primo caso di esaurimento di un leader politico, ma anche lontano dalle dinamiche opache della politica i leader non sembrano passarsela bene. Nella stessa settimana Reed Hastings ha lasciato il posto da Co-CEO di Netflix, mettendo fine - almeno in parte - alla leadership che ha costruito un brand in grado di rivoluzionare diverse industry, cambiare le vite di milioni di persone e introdurre un modello incredibilmente innovativo di gestione delle organizzazioni.
Da mesi, poi, un po’ tutti parlano dell’appannamento dei leader delle grandi aziende tech: dai viaggi spaziali di Bezos alle difficoltà di Zuckerberg, fino allo psicodramma che Musk ha portato dentro Twitter.
Paul Worthington ha scritto che il comportamento recente di Musk è costato alla Tesla il pagamento di una sorta di “asshole tax”, una tassa sulla stronzaggine. Ma se il suo atteggiamento come nuovo padre-padrone di Twitter è il sintomo di un’idea quantomeno alterata della leadership, le analisi di ciò che è successo all'interno della piattaforma hanno rivelato che anche la leadership precedente era tutto fuorché sana: assente, evanescente, e causa di problemi e contraddizioni latenti che l’operazione di Musk ha fatto esplodere.
A questo punto viene da chiedersi se oltre ai problemi specifici dei singoli settori, non ci sia anche un problema più generale che riguarda l’idea stessa della leadership.
Flashback
Il problema della leadership è antico, come antichi sono i tentativi di risolverlo attraverso principi, decaloghi, manuali o teorie. Da Il Principe di Machiavelli fino alle teorie sul management che hanno proliferato negli ultimi 100 anni, il problema del comando, della decisione e della guida torna continuamente nelle riflessioni sulla società e sull’economia.
Negli ultimi decenni poi il discorso sulla leadership è diventato una specie di ritornello, e anche un genere editoriale e merceologico.
Trait theory, Style theory, Contingency theory, approcci psicologici e approcci comportamentali: nomi diversi per cose che si somigliano, distinzioni che generano più confusione che chiarezza, etichette, metodi, libri, guru in rapida ascesa e in ancor più rapida discesa. Una nube di parole, sempre più idee sul come e sempre minore consapevolezza che per guidare efficacemente un’organizzazione serve prima di tutto sapere il perché, e il dove la si vuole guidare.
Qui non vogliamo aggiungere un’altra inutile teoria al magazzino delle teorie inutili, ma osservare in che modo i leader si sono comportati finora e capire se nel loro modo di organizzare le priorità, nello scegliere cosa fare, come farlo e in che ordine, ci può essere la causa dell’attuale sofferenza della leadership.
Negli ultimi cent’anni i leader hanno stabilito le loro priorità secondo uno schema preciso:
l’obiettivo principale è far crescere l’organizzazione e aumentare i profitti;
per farlo bisogna lavorare sul business: inventare nuovi prodotti e servizi, trovare modalità di produzione più efficienti, distribuire, vendere e comunicare meglio;
una volta definito il progetto, si passa a individuare le persone adatte a eseguirlo.
Questo schema oggi ha almeno un paio di criticità: da una parte isola i leader, caricando sulle loro spalle tutto il peso della crescita di un’organizzazione e soprattutto dell’innovazione, cosa che diventa insostenibile sopra una certa scala. Dall’altra parte non tiene conto dell’enorme difficoltà di circondarsi di persone talentuose – trovarle, convincerle a lavorare con noi, motivarle a restare abbastanza a lungo da portare a termine i progetti che abbiamo definito.
Questo modello in qualche modo ha inceppato il funzionamento della leadership: l’ha vincolata troppo alle gerarchie e alle catene decisionali. E soprattutto ha reso meno capaci le organizzazioni di portare dentro persone di valore a prescindere da un piano già stabilito. Persone che potessero appunto innovare, fare le cose diversamente, fare cose impreviste, disobbedire e introdurre nuovi punti di vista.
Infine, questo è un modello che spreme il leader sotto tutti gli aspetti – psicologico, emotivo, fisico. E alla fine lo lascia isolato ed esposto ai rischi dell’egocentrismo. Come disse Tim Cook in una lunga intervista nel 2016 parlando del suo ruolo di CEO in Apple: It’s sort of a lonely job.
Fast forward
Nel nostro futuro preferibile l’ordine dei punti dello schema che abbiamo disegnato sopra è invertito, il rapporto tra le priorità cambia, e quindi cambia completamente il tipo di leadership che è possibile praticare. Il leader del futuro dovrà:
circondarsi di persone di talento e motivarle;
lasciare che siano queste persone a lavorare al business: inventando nuovi prodotti e servizi, trovando modalità di produzione più efficienti, distribuendo, vendendo e comunicando meglio;
osservare l’organizzazione che cresce e aumenta i suoi profitti.
Si tratta di uno schema più in linea con la nostra natura di esseri sociali. Indipendentemente da ciò che vogliamo realizzare – costruire un’impresa o un’organizzazione culturale, difendere una causa sociale o creare un movimento che cambi le abitudini delle persone – non possiamo farlo da soli. Le persone intorno a noi contribuiscono a definire il nostro successo e hanno il potenziale per cambiare il corso della nostra vita.
Se sposiamo questa visione, non ci resta altro che chiederci come motivare le persone a unirsi a noi. Questa è l’unica, vera missione dei leader del futuro.
I leader del futuro guidano soprattutto mostrando uno scopo alle persone che hanno intorno.
Sono gli ambasciatori della motivazione collettiva, quella che va oltre le nostre aspirazioni individuali per unirci tutti attorno a un unico desiderio condiviso. Il leader non soltanto definisce e racconta lo scopo, ma lo incarna, lo vive in prima persona. Se la nostra organizzazione esiste per uno scopo preciso, questo scopo deve trasparire dalla vita dei leader: dalle loro scelte, dal loro comportamento, dalle loro parole, dalle loro azioni.
I leader guidano le persone assicurandosi che siano libere e responsabili nell’esercizio del lavoro. Ci sono troppe persone che pensano di guidare un’organizzazione come se fosse un gregge di pecore da sorvegliare, che risponde solo a stimoli elementari come i premi e le punizioni. Queste persone possono essere leader soltanto di un gregge di pecore.
Chi invece vuole guidare le organizzazioni del futuro, deve capire come tenere vicine le persone giuste, motivarle attorno a uno scopo e lasciarle fare: provare, sbagliare, imparare, crescere e persino prendere il posto che oggi è del leader.
Non si tratta di influenzare gli altri perché si comportino in un certo modo. E non si tratta nemmeno soltanto di cedere parte del proprio potere per consentire alle persone di diventare “imprenditrici di loro stesse”. Piuttosto significa facilitare le connessioni che permettono la piena realizzazione delle persone attraverso il lavoro.
Il leader preferibile mostra a sé stesso e agli altri che lo scopo non è la conservazione dell’organizzazione, la sua crescita, la sua espansione. Lo scopo sta in ciò che si vuole realizzare, e nella convinzione che si tratta di qualcosa di utile e di importante.
Il leader del futuro costruisce imprese migliori come parte di un progetto più grande, in cui le persone hanno l’opportunità di diventare migliori, e quindi la società diventa migliore, per tutti.
Al prossimo futuro!
Ciao Matteo e Paolo, quando elencate le mosse necessarie al leader del futuro scrivete che il primo step è "circondarsi di persone di talento" e mi chiedo se questa cosante ricerca di persone "talentuose" (quelle cioè fuori dalla norma) non sia in realtà controproducente e spesso molto onerosa. Secondo voi non è più interessante ( o disruptive per citare un'altra delle vostre NL) che il primo passo di un leader sia condividere la sua visione di "futuro preferibile", poi, come secondo step raccogliere attorno a questa visione le persone che la sentono propria (a prescindere dalla loro "genialità") e poi adoperarsi per creare il contesto perché i talenti di queste persone si manifestino tenendo alda la visione? Lo dico perché il tema de talento per me è fondamentale e credo che si parli ancora troppo di talento come "dono speciale" invece che di predisposizione innata (e presente in tutti) da potenziare. Grazie se vorrete rispondermi, per me sarebbe utilissimo.