In questa newsletter raccontiamo i nostri Futuri Preferibili in tre mosse: partiamo da qualcosa che accade nel presente, prendiamo la rincorsa nel passato e facciamo un salto nel futuro. Non per prevederlo, ma per provare a indirizzarlo.
Noi siamo qui
“Temo che la commoditizzazione — o forse commonizzazione — della capacità di azione impatti così tanto il framework della percezione di valore che il pericolo è ragionare con categorie obsolete.”
Simone Cicero ha commentato così l’ultimo articolo della newsletter di Matteo, Work After.
Una frase che ci ha colpiti per la forza con cui chiude una fase, e ne apre una nuova.
Per anni la grammatica del valore ha funzionato come una lingua franca per chi lavora a cavallo tra design, strategia e cultura. Differenziazione. Brand equity. Defensibility. Lock-in. Network effects. Value proposition. Categorie che ci siamo ripetuti come un rosario laico per giustificare ogni scelta, ogni progetto, ogni presentazione.
Ma cosa succede se queste categorie non ci dicono più nulla del mondo in cui ci troviamo?
E soprattutto: cosa succede se la nostra capacità di agire — creare, comunicare, progettare, trasformare — diventa così comune, così diffusa, così automatizzata… da non essere più rilevante?
È la domanda implicita nel pensiero di Simone.
È la domanda a cui vogliamo provare a rispondere.
Flashback
La strategia moderna nasce in risposta all’eccesso. Quando il mercato diventa affollato, la differenza diventa l’unico modo per esistere.
Negli anni Ottanta, Michael Porter formalizza l’idea di vantaggio competitivo: un posizionamento strategico che rende un’offerta desiderabile, unica, e per questo difendibile. La metafora dominante è quella del “moat”: un fossato attorno al castello dell’offerta.
Negli anni Novanta, Kevin Lane Keller introduce il concetto di brand equity: la marca come asset immateriale, costruito su associazioni mentali, emozioni, reputazione. È qui che la strategia smette di essere solo funzione, e diventa il controllo di una mitologia. Il brand promette non solo un prodotto, ma l’accesso a un’identità.
Nel frattempo l’economia digitale sposta il vantaggio dalla parte della rete. Si passa dal valore dell’offerta al valore dell’appartenenza. Le strategie si organizzano attorno a dinamiche cumulative: ogni nuovo utente che entra in una piattaforma aumenta il valore per gli altri (network effect); più dati vengono raccolti, più il sistema migliora (learning curve); più a lungo un utente resta, più è difficile che se ne vada (lock-in).
Negli anni Duemila poi il design si fa strategia. Le aziende più avanzate progettano la customer experience come un teatro immersivo. Il valore si produce nell’interazione. Ma ancora una volta, il presupposto è la gestione della differenza: una UX migliore, una brand voice unica, un’estetica riconoscibile, una community fidelizzata.
Ha funzionato, e anche molto bene. Ma tutto questo si reggeva su una condizione implicita: la differenza richiedeva tempo. Tempo per essere costruita, per diventare riconoscibile, per essere difesa. Come scrive Porter in What Is Strategy: “A company can outperform rivals only if it can establish a difference that it can preserve.”
Preservare la differenza era il cuore della strategia. Le aziende cercavano di mantenere una distanza nel tempo, difendendola attraverso barriere tecnologiche, creative, simboliche.
E oggi quella distanza non esiste più. L’AI generativa ha reso istantanea la replicazione di linguaggi, interfacce, messaggi. La differenza non è più una conquista: è una simulazione accessibile. Un preset. Un filtro. Una skin. Ed è altrettanto sottile.
Fast Forward
L’AI generativa cancella il tempo. Le interfacce si replicano. Le strategie si automatizzano. I contenuti si producono in serie.
Tutti possono fare (quasi) tutto. Tutti possono assomigliare a tutti. La commonizzazione della capacità di azione cancella l’asimmetria su cui poggia la logica competitiva.
Guardate cos’è successo in questi giorni con la ghiblizzazione delle immagini: letteralmente da un momento all’altro lo stile di uno dei più unici e inimitabili disegnatori di tutti i tempi è diventato replicabile ovunque, da chiunque. Comunque la si pensi sulla vicenda, è un sintomo di ciò che è possibile.
Non è solo la fine dell’originalità: è la fine della differenziazione. Se tutto è generabile, niente è davvero distinguibile.
Ma se i moat non reggono più, allora serve un’altra logica. Come scrive Sangeet Paul Choudary nel suo ultimo articolo, forse non dobbiamo più chiederci come difendere le nostre roccaforti. Non dobbiamo alzare mura o scavare fossati, ma costruire Firenze.
Choudary racconta che, nel Rinascimento, Firenze non aveva difese militari reali: nessun esercito, nessun fossato. Eppure non subì attacchi o invasioni. Perché Firenze non si difese con la forza, si difese con il significato. Investì nell’arte, nella filosofia, nella bellezza — e costruì l’immagine di un centro di civiltà troppo prezioso, troppo simbolico per essere toccato.
La città divenne un focal point culturale: il luogo dove si poteva vedere cosa stavano diventando l’arte e la conoscenza umana. In un’Italia frammentata, in cui le alleanze cambiavano di settimana in settimana, quella chiarezza era magnetica.
Ma un punto focale funziona solo se chi lo guarda ne percepisce anche l’imprescindibilità. Firenze faceva in modo che le persone in visita non vedessero solo le sue meraviglie, ma capissero anche cosa avrebbe significato distruggerle. Saccheggiare Firenze avrebbe significato attaccare i custodi della grandezza e i fautori della rinascita dell’Impero romano.
L’arte e le tecnologie più innovative — le statue nude, le architetture visionarie — non venivano presentate come eccessi sperimentali, ma come tributi all’umanesimo. La ripresa di un discorso interrotto sull’evoluzione dell’umanità: come si poteva criticarlo?
I Medici attiravano studiosi, filosofi, artisti in esilio. Firenze si trasformava in una piattaforma con forti effetti di rete. E la più potente difesa della città era la sua narrazione.
Più la storia si diffondeva, più cambiava la logica del conflitto. Attaccare Firenze diventava un errore strategico, un danno d’immagine, un autogol politico. Il racconto si faceva trappola: la narrazione diventava lo standard. Altre città imitavano il suo stile. I sovrani mandavano i figli a studiare lì. Firenze era diventata il punto di riferimento. E per questo era al sicuro.
È questa la lezione. Quando non puoi impedire agli altri di invaderti, puoi cambiare le conseguenze dell’invasione. Non rendi l’accesso difficile: lo rendi sconveniente. Lo rendi impensabile. La tua narrativa diventa una difesa. La tua aura, una barriera.
Se proiettiamo questo scenario sulla realtà di brand e organizzazioni, tre mutazioni ci sembrano particolarmente rilevanti:
DALLA COERENZA ALLA CONTRADDIZIONE
Per anni abbiamo cercato l’identità come coerenza, come messaggio unico e compatto. Ma oggi i brand più rilevanti sono quelli che sanno sostenere tensioni opposte. Non cercano sintesi: accettano il paradosso come risorsa.
Patagonia ne è un esempio evidente. È insieme simbolo di sobrietà e status symbol tra i tech e finance bros. Lotta al consumismo ed élite economica. Una contraddizione che non indebolisce il brand: lo rende leggibile nel tempo, perché riflette la complessità reale.
Non è un posizionamento lineare, è un campo di attrito che genera attenzione, discussione, significato.DAL LOCK-IN AL RITUALE
La fedeltà non si costruisce più con barriere all’uscita, ma con il desiderio di tornare. È l’effetto di una relazione che si rinnova nel tempo. Un appuntamento, più che un’abitudine. Una forma che diventa rassicurante, riconoscibile, propria.
l podcast Morning de Il Post, finché è stato condotto da Francesco Costa, ha incarnato perfettamente questo principio. Ogni mattina, stessa voce, stesso tono, stesso ritmo. Nessuna esclusività tecnologica, nessuna barriera. Solo una relazione costruita con continuità e fiducia.
Il rituale non trattiene: chiama. E questa chiamata è più forte di qualsiasi lock-in.DALLA PROPOSIZIONE ALLA TRASFORMAZIONE
Per anni, l’innovazione ha promesso efficienza: più semplice, più veloce, senza attriti. Ma oggi tutte le interfacce funzionano, tutti i servizi sono ottimizzati. Il confronto tra feature ha perso senso. L’efficienza è diventata invisibile.
La vera promessa oggi è un’altra: trasformarti. Non acquistare qualcosa, diventa qualcuno.
Nike non vende solo abbigliamento tecnico. Costruisce immaginari in cui il corpo diventa identità in movimento. Da “If you have a body, you’re an athlete” a “Winning is not for everyone”, mette in scena tensioni culturali profonde: sul merito, sull’accesso, sulla fatica.
Un brand rilevante oggi non dice solo chi è: mostra chi puoi diventare attraverso di lui. La trasformazione è il nuovo prodotto.
Il lavoro della strategia non è più la costruzione della coerenza. È la cura dello spazio in cui possono coesistere verità diverse.
Come scrive Jasmine Bina: “The more tension you can hold, the more truth you can uncover.”
E come suggerisce Choudary, l’alternativa al fossato non è la resa, ma la messa in scena. La costruzione di uno status simbolico che cambia la natura stessa del gioco competitivo.
Non si tratta di abbandonare l’idea di valore. Ma di riconoscere che oggi il valore non si difende: si mette in scena, si organizza, si codifica in modo da rendere impossibile — o sconveniente — attaccarlo.
Il futuro non chiederà strategie difendibili. Chiederà strategie che sappiano generare senso. Progettare luoghi di ritorno. Pratiche di fiducia. Riconoscibilità che attira.
È lì che si costruisce, oggi, il nuovo significato del valore.
Una puntata di Futuri preferibili con "branding" nel sottotitolo non potevo proprio perdermela! E sentire parlare di significato mi trova perfettamente d'accordo (non a caso il mio motto è "Make it meaningful. Make it a brand.").
Forse però stiamo vedendo un dualismo dove non c'è: un brand ha bisogno sia di un significato che di un fossato, le due cose non si escludono. Del resto Firenze è ricordata soprattutto per la sua arte, è vero, ma aveva anche delle mura e un esercito che, ad esempio, l'hanno difesa dall'assedio di Carlo V.
Un bell’articolo, che da Designer mi ha fatto riflettere.
Se l’AI generativa rimuove la superficie, il valore risiederà sempre di più nell’autenticità, non nella differenza apparente. Il vero obiettivo non sarà più quello di cercare di sembrare unici, ma di essere profondamente noi stessi. La strategia non è più un fossato, ma un campo magnetico dove il valore ora si attrae, non si trattiene.
Bravi!