In questa newsletter io e Paolo raccontiamo i nostri Futuri Preferibili in tre mosse: partiamo da qualcosa che accade nel presente, prendiamo la rincorsa nel passato e poi facciamo un salto nel futuro. Non per prevederlo, ma per provare a indirizzarlo.
Andiamo?
Noi siamo qui
Quando prepariamo una presentazione, bisticciamo sempre con Stefano su cose come la punteggiatura, gli spazi e il modo di andare a capo. Soprattutto Stefano e Paolo amano discutere sull’uso delle maiuscole.
Stefano imposta la presentazione e sottolinea tutte le parole chiave, i concetti importanti, le frasi decisive usando le maiuscole. Poi passa Paolo che “spiana” tutti i saliscendi creati da Stefano, e cerca di dare alle parole e alle frasi un aspetto più omogeneo. Poche maiuscole, un tono di voce più meditato e accogliente (secondo lui).
Alla fine si tratta di due diverse visioni del mondo: alzare un po’ la voce, far sognare, puntare in alto, dare a chi legge l’idea che si può arrivare lassù, dove svettano le maiuscole; oppure parlare più piano, con un tono più intimo e confidenziale. Evocare emozioni forti oppure persuadere con la razionalità.
Può sembrare una questione di poco conto, eppure nell’era dell’attenzione scarsa ogni dettaglio è decisivo per agganciare gli occhi, e quindi la mente, del pubblico. Le più importanti piattaforme di contenuti, come YouTube o Spotify, inducono a usare le maiuscole per enfatizzare i titoli e attirare l’attenzione. Forniscono dati in cui garantiscono che i titoli scritti in maiuscolo performano meglio.
Sarà sempre più facile imbattersi in Titoli di Video o di Canzoni Scritti Così. Per non parlare di quelli scritti TUTTI IN MAIUSCOLO.
Certo, si tratta di una strategia che non sembra avere un grande futuro: in prospettiva, quando tutti scriveranno titoli con le lettere maiuscole, niente sarà più in evidenza. Quando tutto sarà maiuscolo, niente sarà maiuscolo: ed è un po’ una metafora della nostra società, che ci ha abituato agli shock seriali, all’emergenza permanente. E a forza di notizie sensazionali e titoli gridati rischia di renderci assuefatti all’eccesso.
Il problema delle maiuscole è solo un sintomo, ma ci aiuta a ragionare su una questione molto più ampia, e più importante: in un sistema comunicativo attraversato da una quantità esorbitante di messaggi, che creano un fortissimo rumore di fondo, come si fa a farsi ascoltare? Cosa scegliamo di sottolineare, a cosa diamo importanza, e quindi su cosa puntiamo per distinguerci?
Secondo uno studio recente sulla distintività dei brand condotto da JKR per Ipsos, la maggior parte dei brand non riesce a impostare una comunicazione davvero distintiva. Solo il 15% dei brand possiede asset che si possono definire pienamente differenzianti.
Se ci concentriamo sulle parole va ancora peggio: solo il 6% dei sistemi verbali analizzati garantiscono una riconoscibilità forte. L’81% dei claim, degli slogan, dei messaggi sono quasi del tutto irriconoscibili. Parole al vento. E si sa che quando si parla al vento, gridare non è la soluzione.
Flashback
Come racconta Matteo Lusiani in una puntata del podcast Brandorad, più di 7000 anni fa, nelle terre tra il Tigri e l’Eufrate, gli umani hanno cominciato a sigillare con l’argilla le anfore con cui commerciavano alimenti o tessuti. E hanno avuto l’idea di imprimere sui sigilli d’argilla dei simboli che permettessero di distinguere i produttori o la provenienza delle merci. In quei simboli possiamo riconoscere i primi marchi. I primi brand.
Quel simbolo infatti non era semplicemente un nome. Non conteneva soltanto un’informazione. Conteneva una promessa: di qualità, di affidabilità, di “tracciabilità”. Conteneva già l’idea della differenza e della distinzione. La stessa idea che ancora oggi, 7000 anni dopo, le organizzazioni sperano di poter affidare alla propria identità di brand.
Lo scopo del branding è creare un’associazione immediata, che si attiva automaticamente nella mente delle persone: non solo tra il simbolo e il prodotto, ma tra il simbolo e un mondo possibile. Il brand non evoca soltanto oggetti o servizi: evoca storie, esperienze, una voce e una personalità, un modo di vivere.
Rispetto alle anfore della Mesopotamia, però, la faccenda ha cominciato a complicarsi quando, con l’aumento della produzione, il mondo delle merci, e quindi dei marchi, è diventato sempre più affollato. Sempre più simboli, sempre più difficile accaparrarsi l’attenzione, sempre più necessità di distinguersi e di fare qualcosa di diverso da quello che fanno gli altri. Normale che qualcuno abbia pensato di mettersi a gridare.
Sempre a caccia di attenzione, nel mondo della comunicazione si passa attraverso cicli in cui si alternano spesso tendenze opposte. Si potrebbe dire: momenti di lettere maiuscole e momenti di lettere minuscole. Come ha sintetizzato la leggendaria campagna Levi’s del 1981, in cui nell’immagine di un gregge di pecore tutte orientate verso una direzione, spiccava una pecora nera rivolta dalla parte opposta. When the world zigs, zag. Quando tutti fanno zig, tu fai zag.
I trend dominanti e le mode della comunicazione hanno seguito l’andamento di questo zigzag. Dopo la rivoluzione industriale, nel corso dell’Ottocento, la nascita dell’advertising moderno ha prodotto un’esplosione creativa, una comunicazione fantasiosa e sfrenata, e una tendenza dominante decisamente gridata. Zig.
E poi zag: nel Novecento il design diventa una disciplina “scientifica”, che cerca di razionalizzare e rendere più meditata la comunicazione visiva. Nel cuore del secolo, con l’età dell’oro del copywriting, si sviluppano tecniche di comunicazione più sottili e raffinate, a volte perfino contro-intuitive, in cui ironia e intelligenza sostituiscono la tendenza a gridare.
Si pensi alla campagna inventata dall’agenzia di Bill Bernbach per Volkswagen, che ha rovesciato tutti i luoghi comuni della pubblicità e dell’industria automobilistica: Think Small era il claim, con il mitico Maggiolino mostrato solo in lontananza, un puntino perduto in una pagina bianca. A proposito di maiuscole e minuscole…
Negli anni Ottanta e Novanta, poi, con le tendenze grafiche e comunicative post-moderne, l’esplosione dei nuovi media e della cultura pop, siamo tornati a urlare un po’. A fare cose più vistose e gridate. Zig.
Nel nuovo millennio, invece, di nuovo zag: con lo sviluppo delle tecnologie digitali si è affermata una tendenza alla semplificazione. Ridurre la complessità, tendere a forme più piatte e facili da diffondere attraverso gli ambienti digitali. Fino agli eccessi del movimento che Paul Worthington ha battezzato ironicamente “Helvetica in pastel”, font Helvetica e colori pastello. Ovvero la tendenza al blanding infinito, che rende i brand davvero tutti molto simili, in una corsa alla somiglianza, alla ripetizione dell’esperienza-piattaforma, ricercata spesso a scapito della distintività.
Ed eccoci alla situazione fotografata dal report di JKR: asset poco distintivi, brand incapaci di differenziarsi, parole (e investimenti) al vento.
Fast Forward
In questo momento siamo di fronte a due movimenti che convivono uno a fianco all’altro, pur essendo apparentemente contrastanti. Da un lato abbiamo la lotta urlata per l’attenzione, il clickbait, l’esasperazione dei messaggi e l’iperbole: tutto è maiuscolo, tutto è sensazionale, tutto è breaking news.
Dall’altro lato l’ingresso massiccio dell'intelligenza artificiale nei processi creativi favorisce la proliferazione di messaggi “medi”, proprio nel senso della media statistica. A causa del suo funzionamento probabilistico l’AI ci restituisce output perfettamente in media (qualcuno direbbe: mediocri). Distinzione, cambiamento, disruption però arrivano quasi sempre dagli estremi, proprio da ciò che non sta nella media; e il tutto minuscolo dell’intelligenza artificiale rischia di diventare tanto illeggibile quanto il tutto maiuscolo del clickbait.
Ci troviamo quindi in una situazione apparentemente paradossale: urlare e parlare in modo standard danno lo stesso risultato. Non sono azioni distintive. Non creano differenza, perché rispondono entrambe a una tendenza dominante, in cui tutti noi ci troviamo, spesso usando contemporaneamente entrambi i trend: “ci ispiriamo” in modo molto ravvicinato a quello che fanno i competitor (la media), e usiamo call to action esagerate, promettendo più di quello che riusciamo a mantenere (l’iperbole).
Continuiamo a fare zig tutti insieme, senza nessuno che trovi il coraggio e la creatività per fare zag.
In questo contesto, il futuro preferibile delle parole e della comunicazione forse è proprio uscire dal ricatto dell’attenzione a tutti i costi: smettere di urlare, e impegnarsi per individuare storie e significati che si impongono perché sono rilevanti e non perché sono scritti in maiuscolo. Cercare ciò che c’è di più autentico in un’organizzazione, trovare il senso profondo del suo messaggio e provare a comunicarlo nel modo più efficace e onesto possibile.
Dall’altro lato, dovremo continuare a indagare ciò che è davvero distintivo, ciò che non sta nella media, le storie capaci di creare una differenza significativa nella mente di chi ci legge e ci ascolta. I tool generativi in questo senso saranno uno strumento prezioso, perché sapranno indicarci in modo sempre più netto il “discorso medio”, ciò che sta in mezzo, e quindi ci aiuteranno a capire meglio in che modo possiamo trovare direzioni divergenti.
Probabilmente l’idea prospettata da Elon Musk di limitare il numero di contenuti leggibili sui social non sarà la soluzione migliore al problema dell’overload informativo, ma forse ci dà uno spunto interessante per capire come fare a scrivere e comunicare meglio. Se impariamo a pensare che davvero chi legge ha un numero limitato di contenuti a cui prestare attenzione - perché di fatto è così, a prescindere da Musk - cominceremo a scrivere pensando che non possiamo sprecare la nostra occasione, dobbiamo consegnare il miglior messaggio possibile. Impareremo a mettere qualche punto esclamativo in meno, e qualche punto interrogativo in più. A fare meno affermazioni perentorie, e formulare più domande strategiche.
Infine, dovremo avere l’ambizione di seguire il consiglio che un intellettuale del secolo scorso dava agli scrittori e alle scrittrici: “dovete scrivere o il minuscolo, o l’immenso”. Avere l’umiltà di togliere qualche maiuscola, e di pronunciare parole più schiette e spontanee. E allo stesso tempo puntare sempre a scrivere storie che siano importanti, significative, che abbiano una risonanza profonda con la vita delle persone.