In questa newsletter io e Paolo raccontiamo i nostri Futuri Preferibili in tre mosse: partiamo da qualcosa che accade nel presente, prendiamo la rincorsa nel passato e poi facciamo un salto nel futuro. Non per prevederlo, ma per provare a indirizzarlo.
Andiamo?
Noi siamo qui
Si è parlato molto in queste settimane della campagna con cui Fiat ha annunciato che non produrrà più automobili grigie. Il video è noto, lo hanno visto tutti: l’amministratore delegato di Fiat e CMO di Stellantis, Olivier François, passeggia per le strade di Lerici e dice che il grigio, grande passione dei costruttori di automobili, non ha niente a che fare con l’Italia. Lasciamo il grigio ai francesi, ai giapponesi e ai tedeschi: da oggi Fiat produrrà soltanto auto colorate. Perché Fiat è un brand che parla di passioni, ottimismo, gioia di vivere. È il brand di chi vuole portare colore nella propria vita.
Il video, realizzato da Leo Burnett, è stato accolto con grande entusiasmo, non solo perché è un bell’esercizio di creatività, uno spot memorabile e riuscito, ma perché deriva da un ottimo lavoro di brand strategy.
Il paesaggio e il territorio, lo stile di vita, l’indole di un popolo e di un Paese, il senso estetico e la cultura del design: la campagna cattura una serie di elementi unici dell’Italia e li proietta sul brand, rendendoli tratti fortemente distintivi, differenzianti. Come ha spiegato Mark Ritson, molti brand potrebbero rivendicare ottimismo e gioia di vivere, pochi possono farlo con la coerenza e la convinzione di un ad che passeggia per le strade Lerici e può dire che quella è casa sua.
Fiat afferma con chiarezza “ecco, noi siamo questo”, e allo stesso tempo mostra ciò che non è: in un attimo tutti i competitor si trovano relegati nel regno del grigio. La forza di questa mossa spiega il potere della scelta strategica: saper scegliere soprattutto cosa non fare. Rendendo chiaro cosa ci rende diversi da tutti gli altri, e quindi unici. Capaci anche di rompere le categorie tradizionali, i codici, i linguaggi e i tabù che imbrigliano la nostra industry di riferimento.
Lo spot è apprezzabile anche per la sua ambizione, perché non rinuncia alla creatività in grande: il CEO parla in prima persona, appare disinvolto e sfrontato, e come se non bastasse nella sequenza finale sale su una macchina Fiat che viene sollevata da una gru e intinta in un gigantesco secchio di vernice arancione. Pare l’abbiano fatto davvero, niente controfigura né interventi di computer grafica.
Fiat insomma ha affrontato in modo audace e irriverente l’enorme e probabilmente dolorosa transizione che attende l’industria dell’automobile. Di fronte alla sfida dell'elettrico, alla disruption tecnologica, ai mutamenti della mobilità, Fiat è indietro rispetto ai competitor. Non poteva presentarsi come driver del cambiamento e dell’innovazione. E allora ha deciso di spostare completamente il centro del discorso, puntando su colori, stile di vita, territorialità.
Mentre il discorso della industry tende ad appiattirsi sulla questione ecologica, col rischio di diventare stereotipato e ripetitivo, Fiat esce potentemente dal coro.
Mentre tutti giocano lo stesso sport, con le sue regole e i suoi linguaggi, Fiat abbandona il campo e gioca non solo una partita completamente diversa, ma un altro sport. Era l’unico modo che aveva per vincere. Come un ragazzino poco portato per il calcio che, invece di vivere di complessi, decide di provare il rugby. Non diventa il più bravo giocatore di rugby del suo gruppo di amici. Diventa l’unico.
Flashback
Essere scelto è da sempre il problema principale di un brand, e lo diventa sempre di più via via che lo scenario si affolla, nuovi player si affacciano continuamente sui mercati, la competizione diventa liquida, e la standardizzazione tende a ridurre le differenze davvero significative. Perché qualcuno dovrebbe scegliere proprio noi?
In passato le aziende hanno speso molto tempo e molte risorse nel tentativo di capire come essere migliori delle altre. Farsi scegliere in quanto portatrici del miglior prodotto, del miglior servizio, della migliore esperienza.
Alla lunga, però, la comunicazione basata sulla qualità delle feature, sulla funzionalità e la convenienza delle caratteristiche di prodotto, è diventata insostenibile: perché i prodotti si somigliano tutti, e anche perché il vantaggio materiale non basta più per motivare le persone a fare una scelta.
Analizzando questa situazione, gli studi di David Aaker hanno suggerito che ciò su cui i brand dovrebbero lavorare non è la “brand preference”, ma la “brand relevance”: trovare l’elemento che rende un brand unico e libera il suo spazio di azione dalla presenza dei competitor. Se un brand individua la propria unicità, il campo d’azione che lo distacca nettamente da tutti gli altri, a quel punto i competitor non sono meno bravi o meno preferibili: semplicemente non esistono, non sono rilevanti nello spazio in cui il brand si è posizionato.
Questo spostamento concettuale ha cambiato in profondità il modo di concepire la comunicazione dei brand. Eppure, l’approccio che ne deriva fatica ad affermarsi nella pratica delle aziende, perché l’istinto a presentarsi al pubblico come “i migliori” è ancora molto radicato. E in più lavorare sulla preferenza è, almeno all’apparenza, più facile: è più misurabile, è più immediato, dà l’illusione di poter materializzare i profitti in modo più diretto, permette di tenere in considerazione un minor numero di variabili.
La posizione di chi si affanna per essere “migliore”, però, sarà sempre precaria, perché minacciata dalla volatilità del mercato, dalla variabilità delle preferenze, dai cicli di vita sempre più rapidi dei prodotti.
Non si può restare a lungo il brand più cool, il più innovativo o il più grande di una industry.
Come non si può restare a lungo il miglior calciatore in circolazione. Bisogna cambiare gioco.
Fast forward
Nel nostro futuro preferibile l’organizzazione davvero unica, quella che resterà rilevante e terrà a distanza i competitor, sarà quella capace di crearsi il proprio campo da gioco.
Creare un nuovo contesto, nuove condizioni che favoriscono il brand fino a piegare il mercato nella sua direzione, modellandolo sulle sue esigenze: è questo ciò che deve fare un’autentica brand strategy.
Apple ha creato un nuovo contesto per gli strumenti tecnologici: non più device funzionali ma stili di vita, modi di costruirsi un’identità. Dyson ha creato un nuovo contesto per le aspirapolveri: non più elettrodomestici ma oggetti di design ad alta tecnologia. Tesla ha creato un nuovo contesto per le auto elettriche, e una nuova identità per chi le guida: non più automobili che inquinano meno ma oggetti di lusso dalle performance eccezionali, che rendono chi le possiede un esploratore della frontiera dell’innovazione.
La strategia di brand del futuro sposterà la sua attenzione dal branding dei prodotti e dei servizi al branding dei problemi: cambiare la domanda a cui un brand sceglie di rispondere modifica automaticamente la posizione e la percezione del brand. Il problema non è vendere computer performanti, ma dare alle persone gli strumenti per cambiare il mondo. Non è vendere aspirapolveri migliori, ma stravolgere l’idea stessa del pulire. Non è vendere auto elettriche, ma inventare la mobilità del futuro.
Per riuscire a fare questa operazione, per immaginare nuovi contesti, serviranno una profonda comprensione del brand, della sua organizzazione, del suo campo di azione, dei bisogni delle persone e dei movimenti della società. Ma soprattutto servirà un nuovo pensiero strategico, capace di liberarsi di alcune cattive abitudini, sfatare alcuni falsi miti, superare alcune idee pigre, come suggerisce Roger Martin. Il pensiero strategico del futuro dovrà:
Abbandonare l’ossessione del controllo, l’illusione di poter considerare tutte le variabili e quindi di fare scelte fondate scientificamente. Le scelte delle persone non sono scientifiche, e non sono sotto il nostro controllo: possiamo solo cercare di influenzarle per portarle nella direzione che, per noi, è la migliore.
Abbandonare il culto dei dati, l’idea che basta avere la giusta quantità di dati statisticamente significativi per fare automaticamente le scelte giuste. Dovrà puntare sulle analisi qualitative, nutrirsi di tutte le informazioni possibili, essere curioso e onnivoro, interessarsi di tutto e creare collegamenti anche tra cose apparentemente lontanissime.
Smettere di credere nella razionalità, che le scelte siano il frutto di processi razionali, di tipo deduttivo (dal generale al particolare, dalla regola al caso specifico) o induttivo (dal particolare al generale, dal caso specifico alla regola). Le decisioni strategiche stanno nel campo della logica abduttiva, che è l’arte di intuire la miglior spiegazione possibile, l’esito più probabile, a partire da ciò che sappiamo. È così che nascono le nuove idee e le nuove soluzioni, ed è così che si fa strategia.
Rinunciare alla linearità: non si può lavorare in modo sequenziale, affrontando una variabile alla volta e un problema alla volta. Per ogni problema esiste una quantità di variabili multiple che agiscono simultaneamente. Vanno considerate simultaneamente, e la decisione strategica è il tentativo di sbrogliare il groviglio delle variabili.
Il pensiero strategico è un gesto immaginativo, è il lavoro necessario per creare possibilità nuove e impensate, realtà che prima non esistevano. Le idee che hanno reso unici i grandi brand appaiono spesso semplici perché hanno aperto le porte di una realtà che adesso appare evidente a tutti, ma che prima del loro gesto di immaginazione non c’era e non era pensabile.
Di questi gesti immaginativi hanno bisogno non solo le organizzazioni per prosperare e crescere, ma anche la società nel suo complesso, che cerca nuove soluzioni e nuovi modi di vivere. Troppo spesso, come collettività, ci ostiniamo a giocare una partita di calcio che non possiamo vincere. È arrivato il momento di pensare al rugby.