In questa newsletter io e Paolo raccontiamo i nostri Futuri Preferibili in tre mosse: partiamo da qualcosa che accade nel presente, prendiamo la rincorsa nel passato e poi facciamo un salto nel futuro. Non per prevederlo, ma per provare a indirizzarlo. Andiamo?
Noi siamo qui
Siamo proprio qui, tutti e tutte noi, sulla stessa barca: è il 19 dicembre.
Ci restano meno di sei giorni per comprare gli ultimi regali di Natale.
Niente panico. Su Internet si trova tutto, la logistica ha fatto passi da gigante e le consegne non sono più un ostacolo.
Ma… come faccio a sapere se quella maglietta è proprio QUELLA che vuole mio figlio? E quella lampada è davvero QUELLA perfetta per il mio soggiorno? Sarà proprio QUELLO l’orologio che mia moglie desidera da tempo?
Per fortuna esistono i brand. Come scorciatoie – o gateway – Nike, Flos e Apple ci indicano la via, ci aiutano a filtrare QUELLI GIUSTI tra le centinaia di prodotti e servizi con i quali entriamo in contatto ogni giorno.
Nel mercato, quando si tratta di comprare cose, succede in modo più evidente. Ma anche la politica, la cultura, il sociale, la religione seguono logiche simili. Da centinaia di anni usiamo i brand come bussole per interpretare la realtà e orientare le nostre scelte.
Come funziona esattamente?
Che cosa ci dicono i brand per farsi scegliere?
Flashback
Ho deciso di rispondere a queste domande ripercorrendo la storia di un brand, Nike. Perché proprio Nike?
perché è un marchio che conosciamo tutti;
perché ha 50 anni, abbastanza per analizzare come è cambiato nel tempo;
perché Shoe Dog, il bestseller di Phil Knight, ha finalmente risposto alle obiezioni di chi rifiuta Nike come modello di riferimento, dicendo “Nike è Nike, noi non saremo mai a quel livello”. La Nike di Knight è la storia di un ragazzo che fa il contabile, ma spinto da una grande passione per la corsa e le scarpe da corsa comincia a importare le Onitsuka Tiger negli Stati Uniti, vendendole direttamente dal bagagliaio della sua Plymouth. Tutti noi potremmo essere Knight – e tutte le nostre aziende potrebbero essere la prossima Nike.
Scarpe da corsa, dicevamo. Le prime Nike sono essenzialmente questo: le Cortez, ma soprattutto i modelli successivi con l’iconica suola Waffle, o ancora le prime Tailwind con l’innovativa tecnologia Air sono scarpe “tecniche”, realizzate con lo scopo di essere più leggere e performanti delle altre scarpe da corsa disponibili a quei tempi.
Il brand parla una lingua tecnica, la lingua della funzionalità e delle feature.
Quello che ci sta dicendo è:
Scegli me perché per correre non c’è nulla di tecnicamente superiore al mondo.
Siamo alla fine degli anni settanta, e per vendere scarpe questo approccio basta e avanza. Ma poi arrivano la stagnazione economica, l’inflazione, l’aumento del costo del denaro: i mercati si trovano in stallo e le aziende sono costrette ad aumentare la propria competitività.
Iniziano così gli anni d’oro della pubblicità, che per Nike significano soprattutto una cosa: il sodalizio con il super testimonial Michael Jordan, datato 1984. Per l’azienda e per il brand è l’inizio di una nuova era.
Le scarpe scompaiono dagli annunci e con loro se ne vanno tutti i dettagli tecnici e le descrizioni delle feature, per lasciare spazio a Michael e al racconto dello stile di vita che rappresenta.
Il brand ci sta dicendo:
Scegli me e potrai essere come Michael Jordan.
I prodotti promettono di farci entrare in una cerchia di persone che condividono lo stesso status. Comprandoli e indossandoli facciamo un’operazione di auto-etichettatura: stiamo cioè adottando un determinato lifestyle, di cui ci serviamo per definire noi stessi agli occhi del mondo.
Per comprendere meglio la differenza tra queste due idee di brand, possiamo rivedere uno spot iconico di Sprite del 1995.
Grant Hill gioca a basket in un campetto e un gruppo di ragazzi lo osserva. A un certo punto il campione NBA beve un sorso di Sprite. Il messaggio per i ragazzi che lo guardano (dentro e fuori lo spot) sembra chiarissimo: “se anche noi beviamo Sprite, potremo giocare a basket come Grant Hill!”.
In realtà l’epilogo dello spot e il celebre claim che lo chiude affermano l’esatto contrario: “L’immagine è zero, la sete è tutto. Ascolta la tua sete”.
In un mondo ormai intossicato dalla cultura dell’immagine, Sprite sembra suggerirci che l’unica risposta possibile è “torniamo indietro” all’epoca delle feature, in cui i prodotti rispondono al meglio a un nostro bisogno fisico/funzionale (dissetarsi) e i brand servono a ricordarcelo (scegli me perché se hai sete non c’è nulla di tecnicamente superiore al mondo).
Nike, invece, va in un’altra direzione.
Fast Forward
Siamo nel 2006 quando esce Nike+: un piccolo device che si inserisce nella suola delle scarpe per tracciare le performance di chi le indossa, comunicandole all’iPod o all’iPhone collegato.
È una rivoluzione, non solo perché porta la tecnologia – e il software in particolare – dentro un paio di scarpe, ma perché cambia completamente il senso e il messaggio del brand.
Nike abbandona definitivamente le epoche della funzionalità e dell’aspirazione, per entrare nel terreno della trasformazione:
Scegli me e potrai essere un atleta migliore.
Si tratta di un terreno che ha una differenza sostanziale rispetto a quelli precedenti: la dimensione temporale. Feature e aspirazione avevano a che fare con il presente, mentre la trasformazione ci proietta nel futuro.
Simon Sinek mi perdonerà per aver manipolato il suo Start With Why aggiungendoci un pezzo, il When. La verità è che la dimensione temporale è troppo importante e, insieme, troppo sottovalutata dalla maggior delle organizzazioni nella costruzione dei loro brand. Un brand dovrebbe sempre partire dal quando, cioè ricordarsi che la sua esistenza dipende dall’idea di futuro che vuole rappresentare.
In realtà Sinek lo sa benissimo e ne parla molto bene nel suo libro The Infinite Game, nel quale invita le aziende a proiettarsi in un futuro remoto, inseguendo la loro giusta causa, la ragione che le fa esistere.
Ma il futuro di cui parla Nike, il futuro dei brand trasformativi, ha solo parzialmente a che vedere con il futuro dell’azienda; piuttosto è il futuro delle persone.
Nike lancia continuamente messaggi di brand che hanno a che fare con la costruzione del nostro futuro:
nella sua mission ci ricorda che “chiunque ha un corpo, è un atleta”;
nelle sue campagne ci invita a riscoprire e inseguire la grandezza che è dentro di noi;
con i prodotti, le applicazioni e i servizi ci affianca per migliorarci come sportivi;
ci ricorda che, in quanto atleti, siamo parte di un movimento globale, che ha come ambizione quella di ridefinire i vecchi canoni dello sport;
ci fa intuire che la nostra vita e il nostro impegno possono andare oltre lo sport, per abbracciare cause politiche e sociali.
Ci porta, cioè, alla scoperta di noi stessi, mostrandoci “luoghi” e possibilità a cui non pensavamo di poter arrivare.
Ed eccoci giunti finalmente al nostro futuro preferibile.
I brand del futuro sono costruiti pensando al futuro: poiché la nostra vita è un viaggio alla ricerca di nuovi centri di significato, presteremo più attenzione a quei marchi che ci aiuteranno a scoprire chi siamo e in quale direzione andremo.
Varrà la pena perseguire e raccontare solo i valori in grado di far fare alle persone un passo in avanti verso la scoperta di loro stesse.
Finirà – mi auguro il prima possibile – l’epoca dei brand purpose-driven, che sta avendo come unico effetto quello di riempire le mission aziendali di parole tanto importanti, quanto ormai private del loro significato originale: innovazione, sostenibilità, diversità, inclusione, valore, comunità... Tutto questo serve soltanto ad allineare il brand al presente, assecondando gli stakeholder che vogliono vedere certe parole scritte nei bilanci sociali, o come voce di menu nei siti corporate.
I brand del futuro saranno costruiti attorno a centri di valore provocatori, rivelatori, differenzianti e anche divisivi. Torneremo a competere non per essere migliori degli altri, ma per essere diversi. Ci chiederemo “possiamo fare in modo che le persone abbiano a cuore qualcosa di diverso da quello di cui si interessano ora?”. Non saremo più ossessionati dalla necessità di raccontare noi stessi alle persone: faremo vedere alle persone qualcosa di loro che ancora non sanno.
Per questo ci ameranno, o ci odieranno.
Proprio come Nike: o si ama, o si odia.
Quello che è certo, citando un’altra pietra miliare del branding e della pubblicità, è che di fronte a brand del genere non si potrà rimanere indifferenti. Perché solo chi ha il coraggio di immaginare il futuro può davvero costruirlo.
Al prossimo futuro,
Matteo
Con questo messaggio salutiamo il 2022 e ci diamo appuntamento al 2023 con altri Futuri Preferibili. Vogliamo fare un augurio a voi e a noi stessi con un altro commercial di Nike, quello realizzato da Spike Lee per i 50 anni del brand. Non importa quanto grandi siano le cose che abbiamo fatto finora, o i traguardi che abbiamo raggiunto: la verità è che non abbiamo ancora visto nulla. Il futuro è tutto da vedere.
“Finirà – mi auguro il prima possibile – l’epoca dei brand purpose-driven“
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