In questa newsletter io e Paolo raccontiamo i nostri Futuri Preferibili in tre mosse: partiamo da qualcosa che accade nel presente, prendiamo la rincorsa nel passato e poi facciamo un salto nel futuro. Non per prevederlo, ma per provare a indirizzarlo.
Andiamo?
Noi siamo qui
Siamo all’inizio dell’anno, che è l’inizio per eccellenza, e quindi è sempre un momento pieno di futuro. Cosa faremo di importante in questo 2023?
Ovviamente innoveremo, come tutti. Un po’ perché sappiamo che la parola “innovazione” deve comparire nei nostri piani strategici e nei bilanci, di solito vicino a “sostenibilità” e “inclusione”, per rassicurare shareholder e stakeholder istituzionali. E un po’ perché siamo cresciuti con il mantra “o innovi, o muori”. Che nella lingua dell’innovazione suona così:
disrupt or be disrupted.
La questione dell’innovazione diventa un po’ più interessante, e meno scontata, se la associamo a una parola come disruption. Letteralmente significa interruzione, rottura, disturbo che impedisce il normale svolgimento di un processo o di un evento. E quindi un concetto di solito percepito come negativo assume un’accezione positiva - preferibile! - se viene visto nella prospettiva dell’innovazione.
È stato Clayton Christensen il primo a parlare di disruptive technology. L’ha fatto nel 1995 in questo articolo e poi nel suo libro più celebre, “The Innovator’s Dilemma”.
Il dilemma dell’innovatore di cui parla Christensen è la domanda di fronte alla quale si trova ogni responsabile di un’azienda nel momento in cui comincia ad avere un business solido, processi definiti e soprattutto clienti abituati ad acquistare un certo tipo di prodotto o servizio: devo continuare a servire i miei clienti e a rispondere ai loro bisogni attuali, oppure devo inseguire nuove tecnologie e creare nuovi prodotti e servizi che potranno rispondere ai loro bisogni futuri?
La prima strada sembra la più sicura, ma porta quasi inevitabilmente alla stagnazione. Se nuovi player disruptive riescono a ottenere l’attenzione del mercato di massa e dei nostri clienti, la scelta conservativa si tramuta in suicidio programmato. Restando uguali a noi stessi veniamo spazzati via dal mercato: Blockbuster o Kodak vi dicono nulla?
Scegliere la via della disruption, però, è estremamente faticoso e complesso. Primo perché nessuno ci garantisce che funzionerà. Secondo perché il solo pensiero di mettere a rischio quello che a fatica abbiamo costruito ci spaventa, è estraneo alla nostra cultura.
Ma lo è davvero?
Flashback
A pensarci bene, distruggere fa parte della vita delle persone tanto quanto costruire.
Basta guardare un bambino o una bambina che gioca.
I bambini distruggono le cose con la stessa facilità e creatività con cui le costruiscono. Fare un disegno è tanto bello quanto distruggere un foglio in mille pezzettini; impilare una torre è tanto bello quanto abbatterla, anzi spesso i bambini la realizzano proprio per distruggerla in modi sempre nuovi; costruire qualcosa con i Lego è tanto bello quanto separare i mattoncini e ricominciare da capo.
I Lego in particolare raccontano bene il rapporto tra creazione e distruzione. Perché possiamo cominciare a costruire, acquistare pezzi nuovi, migliorare la costruzione, renderla più bella e più grande, ma non possiamo aggiungere mattoncini all’infinito. Per costruire all’infinito qualcosa di sempre nuovo e diverso… dobbiamo distruggere! Smontare la nostra costruzione e riconfigurarla.
Forse non sarebbe dispiaciuto a Christensen usare i Lego come metafora per spiegare la sua teoria dell’innovazione: funziona bene.
Il nostro set di Lego è la nostra azienda. I mattoncini sono le persone, i processi, i prodotti, in generale gli asset della nostra organizzazione. Spendiamo del tempo per metterli insieme e assemblare qualcosa che piace a chi la guarda: la mamma che ci fa i complimenti per quello che abbiamo costruito è il cliente che acquista soddisfatto i nostri prodotti e servizi.
Tuttavia non ci accontentiamo. Sappiamo che dobbiamo innovare, è scritto nel piano strategico: investiamo in nuovi mattoncini – persone, risorse, tecnologia, asset – per rendere migliore la nostra costruzione. Facciamo il tipo di innovazione che Christensen chiama sustaining, ovvero un’innovazione che migliora le performance dei nostri prodotti e servizi e aumenta la soddisfazione dei nostri clienti attuali. Ha un ritorno economico più rapido, comporta meno rischi e quindi è più facile da scegliere.
Le cose vanno alla grande, fino a quando…
Il nostro fratellino più piccolo poco lontano da noi si intestardisce a creare qualcosa che non somiglia a quello che abbiamo costruito noi. Prova perfino a inventarsi mattoncini diversi dai nostri. Sembra che non gli importi niente di ricevere i complimenti della mamma. È tutto concentrato sulla sua costruzione alternativa, che interessa solo lui e qualche suo amichetto nerd. FInché un bel giorno se ne esce con una costruzione unica, che si muove, si illumina e interagisce con altre costruzioni. Ha portato in casa – o nel mercato – quello che chiamiamo una disruptive innovation. Di fronte a quella creazione la nostra costruzione – o azienda – è diventata irrimediabilmente obsoleta: non ce la faremo mai a recuperare il ritardo accumulato, siamo troppo grandi e strutturati, e quindi lenti, per rimetterci in pari. Ormai la mamma ha occhi solo per la costruzione di nostro fratello: se solo avessimo prestato attenzione a quello che stava accadendo nella tecnologia dei mattoncini, se solo ci fossimo preoccupati di come potevano cambiare i bisogni e i gusti della mamma e di tutti quelli che amano le costruzioni Lego!
Insomma, da piccoli abbiamo uno splendido rapporto con la distruzione.
Poi veniamo educati a una cultura della conservazione: ci insegnano che distruggere è nocivo, doloroso, triste, inaccettabile.
Per fortuna qualche adulto riesce a conservare dentro di sé il bambino che non ha paura di distruggere. E riesce ad accettare che quello che abbiamo costruito possa smettere di esistere, per lasciare posto a qualcosa di diverso.
Nel 1984 Zhang Ruimin, CEO della Haier, ha radunato tutti i dipendenti dell’azienda e ha distrutto davanti a loro, con un martello, decine di frigoriferi difettosi. Il gesto è diventato il manifesto della qualità dei prodotti Haier, ma soprattutto della cultura organizzativa dell’azienda cinese, che oggi è un ecosistema di 4.000 micro-aziende indipendenti che collaborano per rispondere alle domande in continua evoluzione dei loro clienti.
Al lancio di Meta, Mark Zuckerberg ha detto: "If we don't create the thing that kills Facebook, someone else will”. Non so che cosa succederà con il Metaverso, né tantomeno con il Metaverso di Meta, ma di certo Zuck rappresenta un manifesto vivente di disruptive innovation. E le critiche che normalmente vengono mosse ai suoi prodotti – gli investitori che non premiano l’azienda, i detrattori che parlano di “troppi pochi utenti nel Metaverso” – sono le stesse critiche che Christensen identifica come segnali di una potenziale disruptive innovation all’orizzonte.
I monaci buddisti spendono giorni interi a costruire i loro mandala: alla fine li distruggono, per ricordarsi che nulla dura per sempre e non ha senso rimanere attaccati alle cose terrene.
Nell’ultimo numero di Futuri Preferibili abbiamo parlato di Nike e della sua campagna per i 50 anni, che dice: “Pensavamo di aver visto tutto, ma non abbiamo visto niente”. Anche questo è un bel manifesto di innovazione: l’azienda sa che, se vuole contribuire a costruire i prossimi 50 anni della nostra storia, non può rimanere attaccata a quello che ha fatto finora.
Fast Forward
A quanto pare, l’81% delle grandi aziende italiane fa open innovation.
Ora, se mi dicessero che quattro aziende su cinque in Italia fanno semplicemente innovation, mi sembrerebbe già tantissimo. E non ci crederei. Ma addirittura open innovation!
L’open innovation teorizzata da Chesbrough nel 2003 prevede un doppio movimento dell’innovazione:
dall’esterno verso l’interno: l’azienda acquisisce da fuori competenze, tecnologie, know-how e li integra nei propri processi;
dall’interno verso l’esterno: l’azienda condivide con altri soggetti il proprio know-how e tecnologie in modo trasparente e sistematico.
Quella che in Italia chiamiamo open innovation si limita esclusivamente al primo processo e si risolve, nella maggior parte dei casi, in una collaborazione tra una grande azienda e una startup, motivata più da ragioni di notiziabilità che da reali necessità d’innovazione.
La verità è che la parola innovation vicino alla parola corporate suona come un ossimoro e ci riporta al dilemma di Christensen. Come si può fare veramente innovazione, cioè ricercare e introdurre qualcosa di diverso, future-oriented e completamente disinteressato al favore del mercato mainstream, in un contesto dove tutto cospira per massimizzare il business attuale e i risultati trimestrali?
La risposta a questa domanda ci porta al nostro futuro preferibile.
Sorgerà una nuova classe di imprenditori e leader senza pregiudizi, liberi dal timore di sfidare lo status quo. Questa classe di leader creerà organizzazioni nuove, progettate per scalare l’innovazione disruptive e non il profitto di breve o medio termine.
Innovazione smetterà di essere una buzzword per i bilanci e i piani strategici, ma sarà una parola da usare con parsimonia, per indicare tutto quello che è diverso, nuovo e utile – e non semplicemente quello che migliora un processo, un prodotto o un servizio che già esistono.
Le organizzazioni di successo del futuro saranno:
Trasparenti: chiunque potrà accedere alle informazioni chiave in qualsiasi momento, tanto all’interno quanto all’esterno dell’organizzazione stessa;
Luoghi di sperimentazione: premieranno l’iniziativa, celebreranno il fallimento come occasione di crescita, riconosceranno che sapersi adattare è meglio che cercare di pianificare meticolosamente il futuro;
Acceleratori di autonomia e imprenditorialità: daranno a tutti gli strumenti per organizzare il proprio lavoro, costruire i team e definire gli obiettivi in modo libero e autonomo, da una parte assecondando le motivazioni personali di ciascuno, dall’altra richiamando tutti alla responsabilità di perseguire uno scopo più grande del singolo individuo;
Ecosistemi: sapranno orchestrare il lavoro autonomo delle persone e dei team all’interno dell’organizzazione e le relazioni con altre organizzazioni all’esterno, che rappresentano una risorsa fondamentale per scalare le buone pratiche d’innovazione.
La sfida tra conservatori e distruttori s’inasprirà sempre di più e arriverà il momento in cui dovremo scegliere di schierarci con una fazione, oppure con l’altra.
Voi da che parte state?
Al prossimo futuro!
Matteo
Super