Noi siamo qui
Comprare qualcosa non è mai stata una questione del tutto razionale. Nessuno ha mai comprato un prodotto perché è davvero il più efficace, il più veloce, il più bello, il più buono, il più economico. Nessuno ha mai comprato un detersivo perché “lava più bianco”.
Ogni acquisto è un groviglio di impulsi, emozioni, casualità, sentito dire, manipolazione, pigrizia, fortuna, sfortuna. Anche quando crediamo di scegliere, in realtà subiamo delle influenze di cui non siamo del tutto consapevoli.
Negli ultimi anni, però, l'irrazionalità del consumo è entrata in una nuova fase. Le aziende non ci chiedono più di comprare cose, ci chiedono di credere in qualcosa. Ci insegnano pratiche e stili di vita. Ci esortano a migliorarci e a trasformarci.
Non dicono più sceglimi. Dicono: seguimi! Che è il titolo del libro in cui Gianluca Diegoli racconta la storia di come il marketing ha trasformato i brand in veri e propri culti.
Flashback
Nel 2000 Bruno Ballardini, saggista e pubblicitario, pubblica un libro dal titolo scandaloso: Gesù lava più bianco. La sua idea è che la Chiesa abbia inventato il marketing, diventando l’azienda multinazionale con la più efficace e penetrante strategia comunicativa della storia.
Questa tesi, però, suggeriva anche un’altra cosa: esiste una somiglianza tra consumo e religione. La pubblicità utilizza tecniche di persuasione che spingono le persone verso una specie di “fede”, di adesione emotiva nei confronti dei prodotti.
Chi mi ama mi segua era lo slogan - preso di peso dal Vangelo - della campagna ideata da Oliviero Toscani per i jeans Jesus. Anche questa destinata a fare scalpore: un intellettuale laico come Pasolini criticò con veemenza la campagna perché segnava il definitivo trionfo del consumismo nella società moderna.
Pasolini capiva che il consumismo colmava un vuoto. In passato erano la religione, la politica, la cultura, le grandi organizzazioni collettive a dare significato alla vita degli individui. Da queste istituzioni arrivavano promesse di elevazione, riscatto, consapevolezza, rinascita, appartenenza.
Quelle promesse, però, sono crollate una dopo l’altra. E a riempire i posti lasciati vuoti, a ereditare il compito di curare l’infelicità umana, sono arrivate le cose, gli oggetti di consumo.
Prima offrendo accesso al progresso e a un sistema di vita moderno: era l’età dell’oro della pubblicità, che vendeva lo stile di vita americano, o il boom economico in Italia. Poi offrendo sempre di più emozioni, connessioni, senso di scoperta e accrescimento. Apple creava strumenti per i ribelli che volevano cambiare il mondo. Nike portava l’ispirazione degli atleti nella vita quotidiana di tutti.
Abbiamo visto nascere i love brand, i lifestyle brand, i brand di culto. Finché alcuni momenti di consumo si sono evoluti in culti veri e propri.
Fast Forward
Al centro di questi culti contemporanei, spiega Diegoli, non ci sono più semplicemente le marche o i prodotti. Ci sono delle pratiche: la beauty routine, il fitness, la meditazione, le criptovalute, i viaggi, il cibo.
Il marketing non ci rende consumatori, ma seguaci di un’esperienza, di una disciplina o di una tendenza. Ci educa a cambiare i nostri comportamenti. Ci dà un movimento a cui appartenere. Ci fa sentire eletti, scelti per risvegliarci e distinguerci dalla massa. Trasforma le nostre passioni in atti di fede. Solo quando ci ha trasformato in fedeli ci vende anche delle cose. Ma come fosse una conseguenza del culto, e non il suo obiettivo primario.
I brand-culto hanno tutte le caratteristiche delle sette. Hanno i loro riti. Hanno un mito fondativo. Icone da venerare. Un fondatore semi-divino. Punti vendita che somigliano a templi. Una promessa di salvezza: ti faremo diventare ciò che vuoi essere. Un elemento polarizzante, che divide gli adepti in tribù, e vende loro identità. La peer pressure: la necessità di mostrare al gruppo che si è degni di farne parte.
Più nella nostra società aumenta l’incertezza, si frammenta la cultura, si sgretolano le istituzioni tradizionali, più le persone cercano punti di riferimento, possibilità di appartenenza ed esperienze trasformative. E quindi cresce il potere dei culti.
C’è un risvolto preferibile in questa storia? Diegoli è molto bravo a raccontare senza giudicare, a ironizzare senza sfottere, e alla fine la sua conclusione è un’apertura: queste nuove sette sono meno pericolose di quelle vere. Comunità, appartenenza, tensione trasformativa non possono far male. Basta conoscere le regole del culto, e gestire con consapevolezza la nostra adesione.
Ma si potrebbe andare anche un passo più in là: Gianluca stesso ci ha insegnato che il marketing non è onnipotente. Nella sua newsletter racconta spesso, con un certo compiacimento, che il consumatore resta per tanti aspetti imprevedibile. In barba ai framework, alle analisi, alle ricerche, ai dati, ai tracciamenti, le persone continuano a fare scelte non del tutto condizionabili.
In una certa misura le persone restano impermeabili alla persuasione e allo storytelling. E anche la loro irrazionalità e impulsività può essere positiva, perché è una ribellione alle pretese “scientifiche” e deterministiche del marketing.
La ricerca di uno scopo, il desiderio di dare significato all’esistenza sono tensioni legittime, energie positive che indicano alle persone una via d’uscita dalle strettoie del consumo.
Se le persone continueranno a coltivare questa tensione, potranno sottrarsi al marketing che prova a sfruttarle, e aprire uno spazio che va al di là delle promesse dei culti. In cui possono nascere soggetti in grado di dare risposte più autentiche alla ricerca di significato delle persone. Organizzazioni che sappiano portare a un livello successivo l’abilitazione di connessioni, il senso di appartenenza, l’offerta di percorsi evolutivi.
Invece di vendere ricette miracolose e oggetti magici, potranno supportare e soddisfare davvero il bisogno di miglioramento e di trasformazione. Potranno liberare l’energia che adesso si irrigidisce nei culti, e indirizzarla verso nuovi obiettivi e nuove sfide.
Abbiamo sempre convissuto con un vuoto: un vuoto naturale e funzionale, perché ci ha spinti a colmarlo attraverso la scoperta, la conoscenza e le relazioni.
Quando però questo vuoto è stato riempito dal consumo, in realtà non è stato colmato, ma semplicemente nascosto. È diventato un vuoto perenne, che non poteva più manifestarsi nel suo impulso originario verso la scoperta, la conoscenza e il legame con gli altri.
Nascondere questo vuoto alla nostra consapevolezza ci ha resi schiavi, sofferenti, e incapaci di reagire. Eppure è proprio lì, nel nostro senso di vuoto percepito, che risiede la forza per risvegliarci. Saperlo è il primo passo. Assecondare la spinta contenuta nel nostro vuoto ri-scoperto è il secondo. E il terzo passo? Dipende da ognuno di noi