In questa newsletter io e Paolo raccontiamo i nostri Futuri Preferibili in tre mosse: partiamo da qualcosa che accade nel presente, prendiamo la rincorsa nel passato e poi facciamo un salto nel futuro. Non per prevederlo, ma per provare a indirizzarlo.
Noi siamo qui
MATTEO
Un paio di settimane fa
Ho finito di leggere l’articolo e l’ho inoltrato subito a Paolo: “Dobbiamo scrivere qualcosa su questo argomento. Non su come imparare a distinguere le notizie vere da quelle false: se lo stanno già chiedendo in molti. La vera sfida è imparare a distinguere le notizie dalle non-notizie. Quando esattamente abbiamo iniziato a considerare una proposta di matrimonio finita male una notizia?”.
PAOLO
Da lì ci siamo rimpallati diversi articoli collegati a questo stesso problema.
Non solo la notizia era una non-notizia, ma pure la notizia che smontava la non-notizia era una non-notizia. Non valeva la pena di fare debunking di questa storia, e tantomeno di farlo con insistenza, come se si stesse investigando un segreto di Stato.
MATTEO
La sensazione è che tutto questo parlare del problema delle fake news distolga la nostra attenzione dal problema vero: le real news. Le falsificazioni della realtà sono un problema: non si tratta solo dell’identità di Taylor Swift, ma della possibilità di influenzare i risultati delle elezioni.
Nella maggior parte dei casi, però, le fake-news acquisiscono potere e visibilità proprio a causa dell’incapacità del sistema informativo di filtrare ciò che davvero è importante. In più, contro le fake-news abbiamo degli strumenti che, seppure spesso troppo tardi, ci aiutano a disinnescarle. Mentre la presunta real news, quella che i media concordano nel definire una notizia, influenza in modo molto più pervasivo e irreversibile il nostro rapporto con la realtà.
Flashback
PAOLO
All’origine di questa situazione c’è la confusione, e anzi la fusione totale, tra notizie e contenuti. Una notizia è un’informazione che riguarda vicende attuali, presentata in modo più possibile rigoroso e oggettivo, a seguito di verifiche e controlli, a un pubblico diffuso per coinvolgerlo in una conversazione ritenuta importante per la comunità. Un contenuto invece, come ha spiegato bene Andrea Girolami, è un messaggio senza nessuna intenzione informativa, creato soltanto per essere immesso in un flusso di dati, allo scopo di accrescerlo.
All’inizio del 2019 la fotografia di un uovo su sfondo bianco è stata una delle immagini più condivise e commentate su Instagram. In pochi mesi ha accumulato più di 50 milioni di like. Più recentemente, la patata dorata della fortuna ha raccolto su Facebook oltre 2 milioni di like e 187.000 condivisioni.
L’uovo e la patata sono due esempi di cosa è davvero un contenuto nell’ecosistema digitale: non una storia o un’informazione, ma qualcosa che viene creato e diffuso con il solo scopo di circolare. Di essere condiviso, attirare like, fare traffico.
Gli ambienti digitali sono l’habitat naturale del content, e la loro diffusione ha favorito la trasformazione dei giornalisti da cacciatori di notizie a designer di contenuti. Non solo perché i giornali hanno cercato di attirare verso di sé un po’ dell’attenzione generata sui social, ma perché la concorrenza delle piattaforme ha spinto l’informazione verso un nuovo business model (piuttosto zoppicante, tra l’altro): dalle vendite (supportate dalle inserzioni) al traffico e ai click come fonte principale di revenue. Questo spostamento ha generato l’industria del content raccontata da Kate Eichorn: un modello di produzione in cui quantità e possibilità di generare traffico sono l’unico criterio “editoriale”.
Ironia del linguaggio, il content è la negazione del contenuto, è un contenitore vuoto, un messaggio in cui il significato non conta.
MATTEO
Quando prendono la forma del content, in un certo senso tutte le notizie diventano cattive notizie. Oggi un fatto è una notizia solo se è sensazionale e tendenzialmente negativo, cioè legato a contenuti violenti, conflittuali, divisivi, morbosi. Il risultato è che un’informazione basata su questo tipo di notizie fallisce nella sua promessa: dirci cosa sta accadendo nel mondo. Piuttosto ci dà una vista di quello che non accade nel mondo, perché la realtà che costruiscono i media è un susseguirsi infinito di eventi straordinari, spesso terribili, rapidamente dimenticati in quanto il più delle volte sono marginali o irrilevanti nell’economia complessiva del mondo.
A differenza delle fake news, che sono fuorvianti perché false, le real news ci ingannano in un modo più sottile, offrendoci una visione distorta della realtà.
Hans Rosling spiega molto bene l’effetto di questo fenomeno nel suo libro Factfulness. Nell’introduzione Rosling invita i lettori a mettere alla prova la loro conoscenza della realtà rispondendo ad alcune domande che riguardano povertà e ricchezza, crescita demografica, nascite e morti, istruzione, salute, energia e ambiente. Nei testi svolti da Rosling sulle stesse domande in media le persone danno solo due risposte esatte su dodici. E l’ignoranza non riguarda solo le persone comuni, quelle che si accapigliano sui social perché meno sanno e più sono arroganti. A dare risposte sbagliate sono anche manager, politici, decisori, scienziati, perfino premi Nobel.
I risultati dei test non sono casuali, sono il frutto di un ambiente comunicativo progettato per non informarci. Se ponessimo le stesse domande a degli scimpanzè, dice Rosling, chiedendo loro di scegliere le risposte alle domande tra tre opzioni disponibili, darebbero casualmente più risposte giuste di quelle che danno anche gli esseri umani più istruiti. Questo significa che la nostra visione del mondo non è solo disastrosamente errata, ma sistematicamente errata. Pensiamo cioè che il mondo sia più spaventoso, più violento, più drammatico e irrecuperabile di quanto sia in realtà.
Fast forward
PAOLO
Il filosofo francese Jacques Derrida diceva che l’informazione non informa mai sui fatti, ma informa i fatti, cioè dà forma alla realtà, crea la realtà che decide di raccontare. La domanda per il nostro futuro dunque non sarà chi ci salverà dalle fake news, ma: chi ci salverà dalle real news che restituiscono una visione parziale e distorta della realtà? Risposta Preferibile: i giornalisti. Già, proprio gli stessi che sono la causa del proliferare di notizie sensazionali e terribili.
Quando parliamo di fake news, tendiamo ad associarle ai social e ai canali digitali. Pensiamo che siano gli strumenti nuovi ad aver “rotto” l’informazione, ad averla alterata e degradata. La realtà è che il digitale non ha fatto altro che accelerare una tendenza implicita nell’informazione di massa, quella appunto denunciata da Derrida. Se questo è vero, la disgregazione dei legacy media e la proliferazione di canali alternativi è un’opportunità. È proprio il panorama dei media digitali a mettere nelle mani dei giornalisti del futuro il potere di invertire la rotta.
MATTEO
Qualche settimana fa, nella sua newsletter, Ted Gioia parlava del crescente numero di licenziamenti di giornalisti da parte delle testate tradizionali. In chiusura dell’articolo spiegava come ogni licenziamento stia popolando di nuovi giornalisti le piattaforme di informazione alternativa. In pratica è come se i media tradizionali stessero allevando e formando una nuova generazione di loro competitor.
Questa nuova generazione di giornalisti dovrà cambiare tutto quello che non funziona nel giornalismo oggi:
l’agenda setting: c’è sempre meno valore nell’arrivare prima degli altri, e pochissimo valore nell’avere tra i propri contenuti quelli che si possono trovare su qualsiasi altra piattaforma. Si dovrebbe raccontare una notizia solo se si ha qualcosa di rilevante da aggiungere rispetto a quello che già altri hanno detto;
i modelli di business: se il modello è la pubblicità, soprattutto quella legata al traffico online, il cliente - e quindi l’interlocutore privilegiato - non è il lettore, ma l’inserzionista. Scegliere i modelli a subscription ed evitare le piattaforme sostenute dall’adv significa liberare l’informazione dalla catena di montaggio del content;
la relazione con i lettori: il nuovo giornalista ha una relazione profonda con chi lo segue. Condivide con il pubblico il proprio percorso di scoperta e si serve della conoscenza ed esperienza dei lettori per migliorare sé stesso e i suoi contenuti. Non è una relazione dove uno parla e gli altri ascoltano, non è una relazione tra una testata-piattaforma e i suoi lettori: piuttosto è un viaggio a tappe tra chi scrive e chi legge, in cui la crescita di entrambi va a beneficio di tutti. Un po’ come accade per noi con Futuri Preferibili: è il viaggio che ci interessa, non la destinazione.
Francesco D’Isa, intervistato da Tech4Future a proposito dell’impatto dell’AI sul valore della testimonianza dell’immagine, ha detto che “non ci fideremo di quel che vediamo, ma di chi ce lo dirà”.
Come lettori, il nostro compito del futuro sarà eliminare il rumore di fondo (e ce ne sarà sempre di più, perché le non-news clickbait che riempiono i buchi dei siti web tra poco saranno prodotte in massa dalle macchine) e andare a caccia di giornalisti affidabili, con cui condividere un percorso di scoperta e approfondimento di storie significative e autentiche. Come giornalisti e scrittori, andremo a caccia non di fatti, né di scoop, ma di contesti, per produrre contenuti veramente eccellenti pensati per e con i nostri lettori.
Penso che le considerazioni che avete svolto in questo breve pezzo siano corrette ma non complete. Io vedo un grosso buco informativo sui giornalismi "difficili", pensate al giornalismo investigativo o a quello dalle zone di guerra. Perché se anche il miglior giornalista investigativo del mondo, una persona "di cui mi fido", come scrivete, non ha gli strumenti e il contesto (dal budget per i fixer al supporto tecnologico, dalle polizze assicurative alla difesa legale) necessari per andare a scovare e raccontare la storia, la storia semplicemente non nascerà. Il giornalismo non è fatto solo di eroi ma anche di organizzazioni. Dan McCrum ci ha messo sei anni a investigare Wirecard: e aveva alle spalle il Financial Times. Non è una cosa che avrebbe potuto fare con un blog.
Vi ho pensato di nuovo oggi. Il giornalista che non lavora con il supporto di un'organizzazione con le spalle larghe rischia di ritrovarsi a dover investire una fetta significativa del proprio tempo e delle proprie energie nell'autopromozione, come è ormai la regola per chi fa lo scrittore o il musicista: https://www.vox.com/culture/2024/2/1/24056883/tiktok-self-promotion-artist-career-how-to-build-following. Stiamo in realtà tornando indietro rispetto alla divisione del lavoro e questo ci rende tutti più improduttivi.