In questa newsletter io e Paolo raccontiamo i nostri Futuri Preferibili in tre mosse: partiamo da qualcosa che accade nel presente, prendiamo la rincorsa nel passato e poi facciamo un salto nel futuro. Non per prevederlo, ma per provare a indirizzarlo. Andiamo?
Noi siamo qui
Qualche settimana fa 37signals ha annunciato il lancio di una nuova iniziativa chiamata Once. Non è esattamente un prodotto software, piuttosto una linea di prodotti basata su un nuovo modo di concepire il software. O meglio: un modo nuovo che è un ritorno alle origini.
Once infatti è pensato per uscire dall’idea di software come servizio pagato attraverso un modello di subscription, e tornare al modello che prevede l’acquisto del software in via definitiva.
Once quindi significa: lo paghi una volta sola, ed è tuo. Come si faceva una volta (once upon a time…)
Leggendo la landing page progettata per il lancio è chiaro che non siamo di fronte semplicemente alla campagna per un nuovo prodotto. Siamo di fronte a una riflessione culturale, e all’apertura di un dibattito.
Il copy infatti somiglia a una lettera aperta, un breve saggio che argomenta un pensiero: l’idea consolidata di pagare per l’utilizzo di un software, e non per la proprietà, non è un dato di fatto ma il frutto di una precisa dinamica di business.
Da tempo non si vedeva un copy commerciale basato su una presa di posizione così netta e precisa, e la forza della scrittura della pagina di presentazione ha contribuito ha creare l’attenzione suscitata dal progetto. Il copy di Jason Fried non è passato inosservato: somiglia quasi ai lunghi bodycopy dell’advertising classico, che spesso ospitavano riflessioni articolate sul “significato” di un prodotto e sulla visione del mondo che apriva.
Il copy era pensato per suscitare un dibattito, e il dibattito non si è fatto attendere: i post su LinkedIn legati a Once hanno fatto molto discutere, mentre un lungo e molto animato thread su Hacker News mostra in atto la polarizzazione tra chi difende i vantaggi del Software as a Service e chi ne mette in evidenza i limiti.
Una discussione così accesa è il sintomo di una tensione culturale in cui è in gioco qualcosa di decisivo: lo statuto del software tocca un nervo scoperto della cultura digitale. E probabilmente ci dice che qualcosa sta cambiando, o potrebbe cambiare, nel modo in cui ci siamo abituati a fruire contenuti e servizi nell’era del dominio delle piattaforme.
Flashback
Prima di tutto: cos’è il Software as a Service e come ci siamo arrivati?
Il Software as a Service è un applicativo che non viene installato localmente, ma viene messo a disposizione dei clienti tramite una connessione Internet. Si paga per l’utilizzo del software, non per il suo possesso. La diffusione dei SaaS è stata possibile grazie a Internet e al cloud computing. Nei primi anni 2000 Salesforce inizia a vendere la propria soluzione CRM nel cloud ed è l’unico SaaS a competere contro Oracle e gli altri software on premise, cioè installati e gestiti localmente. Dopo l’IPO di Salesforce nel 2004, il tasso di crescita annuale del settore SaaS raggiunge il 15% e continua a salire, mentre quello del software tradizionale inizia un declino costante.
Di lì a poco tutti i software che eravamo abituati a installare sui nostri personal computer cominciano a migrare verso il modello as a Service: dalla suite di Adobe a Microsoft Office, ci siamo abituati a pagare un fisso mensile o un abbonamento annuale per servirci di programmi che vengono messi a nostra disposizione attraverso Internet.
Ma la migrazione verso il modello as a Service non riguarda soltanto il software. Anche i prodotti fisici e il modo in cui li acquistiamo iniziano progressivamente ad avvicinarsi alla modalità di fruizione dei servizi:
Amazon con Kindle trasforma il libro in un oggetto digitale, riproducibile all’infinito, a costo marginale zero. Sembra che la produzione di un Kindle, l’hardware che utilizziamo per leggere i contenuti, costi ad Amazon circa 5 dollari in più del prezzo di vendita. Cioè Amazon decide di “svendere” l’hardware per incentivare l’acquisto di servizi e contenuti;
Netflix e Spotify hanno fatto scomparire i DVD e i CD audio, trasformando un mercato di prodotti fisici in uno di servizi digitali in cui possiamo vedere film e ascoltare musica senza limiti, a un prezzo fisso mensile;
Apple con iPhone e l’App Store ha moltiplicato esponenzialmente il valore del suo dispositivo hardware trasformandolo in una chiave di accesso a un ecosistema di servizi infinito (ricordate come veniva pubblicizzato iPhone? Qualsiasi cosa tu voglia fare, “there’s an app for that”).
E questo è stato solo l’inizio, perché ora vediamo molti altri cambiamenti e fenomeni che puntano nella stessa direzione:
il coworking è la trasformazione dell’ufficio in un servizio;
c’è chi inizia a offrire servizi di subscription living: paghi una tariffa mensile fissa e puoi vivere e lavorare in una nuova località ogni mese;
persino le automobili, da Tesla a BMW, stanno introducendo pacchetti di servizi aggiuntivi attivabili via software dietro un pagamento mensile.
In pratica abbiamo sostituito l’acquisto di un bene con la subscription a un servizio che ci dà diritto a un suo utilizzo temporaneo, in una forma simile all’affitto.
In un certo senso, abbiamo abolito la proprietà privata.
I vantaggi di questo modello sono evidenti: costi iniziali più bassi, setup molto più rapido, aggiornamenti semplici, accessibilità e scalabilità.
Altrettanto evidenti però sono gli svantaggi: minor controllo (di fatto se il provider decide di sospendere il servizio possiamo farci ben poco), obbligo di trasferire al provider i nostri dati personali, dipendenza da Internet.
Richard Stallman, della Free Software Foundation, ha coniato un acronimo che utilizza al posto di SaaS: SaaSS, ovvero Service as a Software Substitute.
Non software come servizio, ma un servizio che sostituisce il software.
Con il sistema SaaSS, dice Stallman, gli utenti non hanno accesso ai file che eseguono i loro programmi perché sono sul server di qualcun altro, dove gli utenti non possono vederli o toccarli. Pertanto è impossibile per loro accertare cosa i programmi fanno realmente, ed è impossibile modificarli.
Con il software ci sono due possibilità: o gli utenti controllano il programma o il programma controlla gli utenti. Con il software libero, gli utenti controllano il software. Con il software non-free e i SaaSS, il proprietario controlla il software e il software controlla gli utenti. Questo dà al proprietario un iniquo potere sugli utenti, che sono alla sua mercé.
Ad oggi, i mercati e i fondi di investimento valutano più favorevolmente le aziende con ricavi da abbonamenti ricorrenti rispetto ai loro competitor che vendono prodotti con transazioni una tantum.
Ma questo modello può iniziare a vacillare, come il fermento creato da Once sembra suggerire?
Un primo elemento di incertezza per i business fondati sulla subscription è l’inflazione, che in questo momento è tornata a farsi sentire pesantemente sui mercati. A causa dell’inflazione:
i provider alzano il prezzo dei servizi e introducono misure di “protezione” del loro business, per esempio impedendo agli utenti di condividere l’accesso ai servizi con altri;
gli utenti valutano con più attenzione dove spendere il loro denaro, scegliendo di cancellare i servizi o sostituirli con altri più economici. I competitor infatti sono sempre di più, e disdire un servizio è facile e rapido tanto quanto sottoscriverlo.
Se questo è il contesto in cui ci muoviamo, quale futuro attende i servizi digitali e le sottoscrizioni?
Fast forward
Secondo Statista la dimensione del mercato dell’economia degli abbonamenti digitali in tutto il mondo valeva 650 miliardi di dollari nel 2020, e si prevede che questa cifra salirà a 1.500 miliardi di dollari entro il 2025. Basta questo dato per dire che il mercato delle subscription non scomparirà. Ciò significa che i clienti dovranno adattarsi a questa nuova forma di proprietà. Ma allo stesso tempo che sarà necessario rivedere i contratti che legano utenti e provider dei servizi.
Per esempio, tutti in futuro dovremo avere il diritto di riparare i prodotti che utilizziamo – e le aziende dovranno metterci nella condizione di poterlo fare. Ogni utente dovrà avere il controllo sulla durata di vita e il funzionamento dei propri prodotti, senza essere costretto ad aggiornarli periodicamente.
I provider potranno in futuro offrire modalità diverse di acquisto dei loro prodotti, con pagamenti una tantum oppure in abbonamento, rimettendo nelle mani degli utenti il diritto di scegliere.
Ma la cosa più importante è costruire un futuro in cui sia chiaro che la subscription è un modello in cui utenti e provider non si scambiano in modo ricorrente solo denaro, ma soprattutto valore. Così come ogni utente si impegna a pagare mensilmente per usufruire di un servizio, ogni provider si impegna a offrire un valore che supera il prezzo pagato.
Ogni mese: l’abbonamento dovrà tornare a essere la sottoscrizione di un patto di fiducia, una scelta motivata dalla capacità di un brand di vivere all’altezza della sua promessa iniziale. E non una pratica fondata soltanto sull’abitudine e sull’inerzia.
Questo vale soprattutto per tutti quei servizi che sono considerati non essenziali, o addirittura un lusso. Per molti utenti, infatti, non è un problema rinunciare all’intrattenimento, alla moda e al fitness quando necessario. E quindi la loro permanenza andrà motivata sempre di più con una ragione profonda e con un incremento di valore costante.
Come è spesso accaduto nell’ambiente digitale, le piattaforme hanno catturato ed espanso un principio della cultura di Internet delle origini, piegandolo però verso le ragioni del profitto. In questo caso, hanno preso i concetti di apertura, condivisione, “non proprietà”, e li hanno trasformati in una forma di estrazione perpetua. Invece di abolire la transazione economica, che era una delle utopie di Internet, hanno spesso incatenato gli utenti a una transazione permanente.
Per questo l’operazione di Once, e la sua presa di posizione, in questo momento ci sembrano rivoluzionarie: perché promettono di spezzare una catena, e di aprire un nuovo spazio di libertà, innovazione e creazione di valore. È così che Internet e la cultura digitale sono riusciti a rilanciare continuamente le proprie potenzialità. E quindi è possibile che perfino la promessa di tornare a fare le cose “come una volta”, contenga l’ipotesi di un futuro preferibile.