In questa newsletter raccontiamo i nostri Futuri Preferibili in tre mosse: partiamo da qualcosa che accade nel presente, prendiamo la rincorsa nel passato e facciamo un salto nel futuro. Non per prevederlo, ma per provare a indirizzarlo.
Noi siamo qui
Nel 2020, in pieno lockdown, eravamo convinti che nulla sarebbe stato più come prima, che ci saremmo dovuti preparare al new normal. Ovvero a una trasformazione radicale di quasi tutti gli aspetti fondamentali della nostra vita e della società. Eppure oggi nulla sembra cambiato, anzi sembra tornato tutto alla situazione pre-Covid.
Tutto, tranne una cosa: il modo in cui lavoriamo.
Spinti dalle necessità legate alla pandemia, abbiamo sperimentato modalità, processi, tecnologie che ci hanno sbalzato in una nuova dimensione. All’improvviso sono diventate possibili cose che fino a poco prima sembravano impensabili. E le persone, per lo più, hanno scelto di sfruttare al massimo queste possibilità nuove. Muovendosi molto più velocemente delle organizzazioni.
In questo contesto, la corsa al ritorno in ufficio che si registra un po’ ovunque, dopo qualche anno di lavoro remoto o ibrido, non è il sintomo di una volontà generale di tornare indietro, ma è una tensione generata dal fatto di essere andati molto avanti. Torniamo in ufficio non perché il lavoro remoto non funzioni, ma perché abbiamo scoperto di non avere gli strumenti, le regole e il mindset necessari per gestire in modo efficace le nuove modalità di lavoro.
Tuttavia l’illusione di ritornare al passato non può essere una risposta valida nel medio-lungo periodo, perché ci sono fatti e numeri che le organizzazioni non possono ignorare:
il continuo allontanarsi dei professionisti dalle aziende, con il mercato freelance che in USA ha raggiunto il 38% della workforce;
l’AI e gli effetti che avrà sul modo in cui lavoriamo e sulle nostre professioni. Si dice che in OpenAI si facciano scommesse sul fatto che presto ci sarà la prima billion dollar company fatta di una sola persona;
la necessità continua di adattare i budget. Se chiedete quante aziende avevano un budget per l’AI a fine 2023 la risposta (onesta) probabilmente sarebbe: nessuna. Quante ce l’hanno oggi? Tutte. Recuperare questi budget richiede continue ottimizzazioni e tagli, specialmente considerando che il costo del denaro è passato da 0 a oltre il 5%, ai massimi da 23 anni. Avere un buon cashflow è fondamentale.
Le organizzazioni sono fatte di persone e chi le gestisce sa bene che le persone sono fondamentali perché le organizzazioni possano prosperare. Ma sa anche che la voce “dipendenti” è un costo fisso importante, che va ottimizzato in un periodo dove ogni risorsa conta e l’imperativo è la flessibilità.
Quale futuro attende le organizzazioni?
Flashback
Che cos’è il lavoro?
Secondo la Treccani è “qualsiasi esplicazione di energia (umana, animale, meccanica) volta a un fine determinato”. La definizione non implica un compenso per l’attività svolta; l’importante è che ci sia uno scopo, che si raggiunga un certo risultato.
Chi assume qualcuno per fare un determinato lavoro, lo fa per raggiungere un risultato atteso. Per raggiungere i risultati, generalmente bisogna svolgere dei compiti, che richiedono specifiche competenze.
Le organizzazioni dell’economia industriale prendono lo scopo del lavoro, i compiti che permettono di raggiungerlo e le competenze richieste, e “impacchettano” tutto in titoli professionali, o per chi ha familiarità con l’attività di assunzione di personale, in job description. A questi pacchetti, poi, aggiungono altri elementi che caratterizzano il lavoro per come siamo abituati a intenderlo:
le persone: con chi lavoreremo? chi sarà il nostro capo? saremo assegnati a un team, con dei colleghi di riferimento?
gli spazi: dove lavoreremo? come sono organizzati gli uffici, gli impianti, i siti produttivi? dove si trovano?
e ovviamente, il compenso: quanto saremo pagati per il nostro lavoro? quali altri benefit ci saranno concessi?
Questi “pacchetti”, composti da:
scopo
compiti
competenze
persone
spazi
compenso
hanno reso le regole del lavoro piuttosto semplici, e hanno anche organizzato i percorsi di crescita e formazione delle persone.
Si sceglieva già la scuola in funzione della possibilità di imparare un mestiere; poi si trovava un impiego e lo si teneva per decenni, talvolta per l’intera vita professionale. Si rispettavano le regole e le gerarchie. E si poteva fare carriera, cosa che creava le possibilità di costruire una famiglia, comprare una macchina, una casa, mandare i figli a scuola e garantire loro una vita migliore.
Poi, esattamente come è successo per altri settori, l’automazione e la globalizzazione hanno “spacchettato” anche le componenti del lavoro, consentendo di suddividere ogni lavoro in diverse fasi, e quindi modificando profondamente il modo in cui viene svolto.
Prendiamo ad esempio la questione dello spazio, o della geografia. In passato, molti ruoli richiedevano che il lavoro fosse eseguito in un luogo specifico, come un ufficio o una fabbrica. Automazione e globalizzazione hanno permesso di differenziare i luoghi in cui un compito può essere svolto, e quindi di spostare molti compiti altrove rispetto al luogo di “origine” del lavoro. La possibilità di esternalizzare e delocalizzare i compiti in qualunque posto del mondo ha consentito ai datori di lavoro di pagare meno per lo stesso lavoro.
Mano a mano che il lavoro viene “spacchettato”, cresce la probabilità che i datori di lavoro cerchino modi per distribuire i compiti umani ovunque sia più conveniente. Questo non è limitato soltanto all’esternalizzazione di intere fasi produttive in paesi dove il costo del lavoro umano è più basso, ma riguarda anche la possibilità di affidare sempre più compiti specifici alle macchine.
L’esempio più evidente dell’unbundling, della “scomposizione” del lavoro è la gig economy. Prendete Uber: le attività necessarie per risolvere i problemi vengono gestite da un’app, che prende l’ordine del cliente, dice all’autista dove andare a prenderlo e accetta il pagamento. Quindi un autista senza particolari competenze o dotazioni, se non quelle di saper guidare e avere a disposizione un’auto, trasporta il cliente a destinazione.
Gary Bolles, Chair for The Future of Work alla Singularity University e autore del libro The Next Rules of Work, ci invita a immaginare il mercato dei lavori come una piramide.
In alto ci sono i lavori che richiedono competenze qualificate e molto richieste, che indirizzano e supervisionano il lavoro delle macchine, per le quali le organizzazioni sono disposte a pagare molto.
In fondo alla piramide ci sono i lavori che richiedono basse competenze, quelli che si possono gestire comodamente attraverso un’app, come fare consegne con Glovo o montare mobili Ikea con TaskRabbit. Anche se sono tecnicamente i lavori più facili da automatizzare, spesso non conviene farlo, per difficoltà normative o semplicemente anche solo per il fatto che è molto facile trovare lavoratori disposti a svolgere questi compiti, quindi anche molto facile pagarli poco.
La parte centrale della piramide è occupata dai lavori che prevedono compiti ripetitivi, in cui l’automatizzazione è estremamente conveniente, perché i task possono essere trasferiti facilmente ai robot o ai software. Sono i lavori che tenderanno a scomparire, per liberare gli spostamenti di budget di cui parlavamo sopra.
Le organizzazioni si sfidano per assumere i lavoratori nella parte alta della piramide e trattenerli il più possibile, offrendo alti compensi e benefit. Spesso però si trovano a fare i conti non solo con la concorrenza di altre organizzazioni, ma sempre più con il crescente desiderio di questo tipo di lavoratori di avere contratti indipendenti o non tradizionali, che garantiscano loro il massimo della libertà.
Dall’altra parte, le organizzazioni cercano di comprimere i costi esternalizzando o automatizzando parte dei lavori a più basso impatto e alta ripetitività, rischiando così di farli scomparire.
Tuttavia, è bene notare che questa non è una tendenza inevitabile.
Sta alle organizzazioni decidere se esternalizzare o automatizzare il lavoro, decidere quali lavori valorizzare, decidere come farlo in modo da costruire un futuro preferibile tanto per le necessità delle organizzazioni stesse, quanto per quelle dei lavoratori.
Fast forward
L’organizzazione del futuro non può pretendere di tornare al periodo precedente alla pandemia, in cui tutti seguivano le vecchie regole del lavoro, spesso sopportando tragitti casa-lavoro lunghi e stressanti, occupando uffici anonimi e tollerando manager tossici pur di avere abbastanza interazioni faccia a faccia: che ufficialmente servivano a definire la “cultura aziendale”, ma più spesso erano un metodo abbastanza rudimentale di controllo.
In futuro un’organizzazione non potrà, in sostanza, continuare a ragionare come se il lavoro fosse un’unica entità formata da scopo-compiti-competenze-persone-spazi-compenso, in cui le diverse funzioni non sono scindibili. E non potrà comportarsi come un monolite che organizza ognuno di questi aspetti facendoli stare a forza tutti insieme dentro contratti costruiti su un modello di lavoro non più adeguato ai nostri tempi di globalizzazione, automazione e AI.
Da monolite, l’organizzazione dovrà progressivamente trasformarsi in una rete aperta e collaborativa, o – se preferite – in una community.
Accanto alla forza lavoro interna, le organizzazioni accederanno a una forza lavoro diffusa globalmente e accessibile tramite piattaforme digitali: è il “cloud del lavoro”, che garantisce alle organizzazioni di avere sempre le competenze necessarie per svolgere anche i lavori più complessi, senza caricarsi di costi fissi e risparmiando enormemente sui tempi di selezione.
Questo cloud del lavoro differisce dalla Gig Economy perché non causa squilibri di potere e di compenso tra azienda e lavoratore, ma al contrario garantisce un equo compenso a entrambi e soprattutto flessibilità al lavoratore e accesso a skill specialistiche per l’azienda.
Per funzionare, il “cloud del lavoro” deve essere costruito sui principi di:
apertura: scopo e compiti dell’organizzazione sono accessibili in modo trasparente anche a lavoratori che non fanno parte della forza lavoro interna, localizzati in altre aree geografiche, attraverso un “sistema operativo” aperto che permette a tutti di accedere al funzionamento dell’organizzazione stessa;
standardizzazione: i compiti dell’organizzazione devono essere trasformati in task definiti sulla base di regole condivise, per esempio sui risultati attesi o sul tempo da dedicare a una specifica attività;
autoselezione: i lavoratori, tanto quelli interni all’organizzazione, quanto quelli esterni, devono essere liberi di scegliere a quale compito dedicarsi, in modo che sia in linea con le loro competenze e aspettative;
collaborazione: ogni compito svolto da un lavoratore è accessibile ad altri perché possa essere migliorato o rielaborato in successivi compiti.
Esattamente come dall’unblundling dell’enciclopedia è nata Wikipedia, la community che scrive e mantiene aggiornata la più grande enciclopedia online del mondo, dall’unbundling delle organizzazioni nasceranno nuove community workforce, costruite con la stessa logica di Wikipedia.
La tecnologia ha disfatto il pacchetto dell’organizzazione fordista trasformando i lavoratori in individui isolati, attivati e manovrati dalle piattaforme. Ora il compito delle organizzazioni è quello di riconnettere gli individui per creare una forza lavoro flessibile, libera, capace di rispondere attivamente ai cambiamenti anziché subirli. Una forza lavoro organizzata come una comunità: oltre la convivenza forzata del modello fordista, oltre l’isolamento della gig economy, un modello in cui le persone scelgono come e quando collaborare per raggiungere un risultato.
Né come Ford, né come Uber: come Wikipedia. E non ci dispiace l’idea che il modello che organizzerà il lavoro del futuro sia diverso da quello usato per produrre merci, o per spostare e consegnare cose, ma sia quello usato per creare e condividere conoscenza.
Le community workforce sono un futuro preferibile e anche già visibile in certi contesti, specie hi-tech, dove i task sono più standardizzabili, ma si intravedono segnali concreti anche altrove e la spinta da freelance è di grande impatto.