In questa newsletter io e Paolo raccontiamo i nostri Futuri Preferibili in tre mosse: partiamo da qualcosa che accade nel presente, prendiamo la rincorsa nel passato e poi facciamo un salto nel futuro. Non per prevederlo, ma per provare a indirizzarlo. Andiamo?
Noi siamo qui
Pochi giorni fa la rivista Creative Bloq ha pubblicato un articolo dal titolo “Does this failed biscuit rebrand show designers sometimes get it wrong?”.
Il riferimento è al rebranding della storica Bahlsen, azienda tedesca produttrice di biscotti, che solo nel 2021 aveva lanciato il suo nuovo brand e la nuova product architecture, realizzati insieme allo studio italiano Auge Design.
Il rebranding è stato accolto con enorme entusiasmo dalla design community, tanto da aggiudicarsi numerosi premi, tra cui anche un D&AD award. Tuttavia, si dice nell’articolo di Creative Bloq, l’azienda ha registrato una diminuzione delle vendite dell’11,8% solo nei primi cinque mesi dell’anno e, secondo CEO e top management, la causa è proprio il rebranding.
Un articolo uscito a fine luglio su Fachpack riporta un’intervista al CEO di Bahlsen Alexander Kühnen, che dice: “Il design ha un valore artistico, ma non è del tutto in linea con ciò che i consumatori si aspettano in questa categoria di prodotti”. E ancora, parlando del rebranding: “è stata una presa di posizione forte, ma non abbastanza attenta al consumatore. La mossa successiva sarà altrettanto forte, ma dovrà essere più concentrata sul nostro pubblico”.
Così sembra che Bahlsen stia lavorando a un nuovo redesign, questa volta collaborando con istituti di market research, ed effettuando test con i consumatori direttamente di fronte allo scaffale.
Da questa storia nasce il titolo e il messaggio chiave dell’articolo di Creative Bloq: ecco cosa sono in grado di combinare i designer quando progettano pensando solo a sé stessi, all’approvazione dei propri colleghi, all’adozione di criteri comprensibili solo agli addetti ai lavori, dimenticandosi dei clienti. Progetti che distruggono un business.
Noi non la pensiamo così: non ci sembra che questa sia l’interpretazione più utile da dare alla storia di Bahlsen, e vorremmo partire da qui per fare alcune riflessioni sul futuro del brand design.
Flashback
Commentando questa notizia sui social o nelle design community, in molti hanno citato celebri casi di rebranding falliti.
Parlando di packaging, un caso di studio è quello di Tropicana, il brand di succhi di frutta di proprietà della PepsiCo, che nel 2009 ha cambiato radicalmente le confezioni dei suoi succhi d’arancia. Il nuovo pack è stato criticato dai clienti e le vendite sono calate drasticamente, costringendo Tropicana a tornare al vecchio design, in un’operazione dal costo complessivo di oltre 50 milioni di dollari.
Ma Tropicana non è l’unico caso.
Nel 2010, a seguito del crollo delle vendite provocato dalla crisi finanziaria del 2008, l’azienda di abbigliamento e accessori Gap ha deciso di ridisegnare il suo logo, per la prima volta dopo 20 anni. Il nuovo logo, progettato dall’agenzia americana Laird and Partners, è comparso il 6 ottobre 2010. Dopo solo una settimana e dopo numerose critiche da parte dei clienti, Gap è tornata al vecchio logo. Un rebranding fallito che pare sia costato 100 milioni di dollari.
Nel 2000 British Petroleum ha adottato un nuovo marchio progettato da Landor Associates. Il logo era pensato anche per dare un nuovo significato alla sigla BP: Beyond Petroleum, una tagline che dichiarava l’impegno dell’azienda per la tutela dell’ambiente e l’energia rinnovabile. Una promessa ambiziosa e non immediatamente supportata dai fatti: circa un decennio dopo la devastante fuoriuscita di petrolio della Deepwater Horizon ha provveduto a cementare la cattiva reputazione dell’identità visiva. Sulla scia della catastrofe, il marchio di BP è diventato il simbolo della distruzione globale.
Fast forward
BP ha un nuovo logo verde, ma il suo business è sempre il vecchio, nero petrolio.
Ecco, con le dovute proporzioni, forse nel caso di Bahlsen ci troviamo di fronte a una situazione simile.
Per comprendere il fallimento del rebranding non dobbiamo guardare soltanto alla scatola, ma anche dentro la scatola, e dentro l’azienda.
La nuova identità progettata da Auge Design è perfetta, non ha nulla che non va. Qualcuno dice che i nuovi pack non si notano abbastanza sugli scaffali? Beh, fatevi un giro in un supermercato: la scritta Bahlsen in blu sugli sfondi colorati si nota eccome, anche perché è diversa da qualsiasi altra cosa si possa trovare nel reparto biscotti.
Qualcuno lamenta che il nuovo design piace soltanto ai designer? Francamente ci sembra una stupidaggine: Auge ha scelto con consapevolezza di applicare al packaging dei biscotti un linguaggio ampiamente apprezzato su altre piattaforme, o in altre industry. Se questo approccio in un primo momento può creare rottura, superato lo spaesamento iniziale crea familiarità, sicurezza, fiducia.
In più, questo metodo replica un framework che Auge aveva già utilizzato con successo progettando il pack dei gelati Gruvi di Sammontana. E immaginiamo che l’operazione sia stata apprezzata e abbia generato una buona risposta di pubblico, se la Coop per i suoi gelati si è “ispirata” in modo molto ravvicinato a quel design.
Qualcuno ha scritto che i clienti, non trovando sullo scaffale il solito pack, hanno cominciato a sostituire i Bahlsen con altri biscotti simili, magari anche più economici. Ma sulle scatole c’è una scritta gigante con il nome della marca, come hanno fatto le persone a non vedere più i loro biscotti preferiti? Forse non erano davvero i loro biscotti preferiti, ma semplicemente “dei biscotti”. Biscotti che compravano per abitudine, perché si è sempre fatto così: ed è possibile che vedendoli nella nuova confezione li abbiano percepiti come troppo eleganti, un prodotto premium lontano dalla rassicurante quotidianità del comfort food.
Qualunque sia la spiegazione del comportamento del consumatore di fronte allo scaffale, che molto spesso non è interpretabile in modo così scientifico e prevedibile come vorrebbero alcuni esperti di marketing, siamo certi di una cosa: il visual design non è la causa del calo delle vendite. Così come non sarebbe stato del visual design il merito se le vendite fossero improvvisamente balzate in avanti.
Ci sono sicuramente delle cause esterne che spiegano le difficoltà: l’inflazione e l’aumento dei prezzi hanno influito sul consumo di prodotti non di prima necessità, come i biscotti.
Ci sono probabilmente delle responsabilità del management: il rebranding è coinciso con un cambio generazionale al vertice, e si sa che questi passaggi spesso portano il desiderio di lasciare un segno prendendo le distanze dal passato, nel tentativo di intercettare consumatori più giovani, magari rischiando di perdere consenso tra i consumatori esistenti.
Più in generale, secondo noi, questa situazione è il frutto di un errore strategico che sta alla base dell’operazione.
Bahlsen ha un nuovo bellissimo design, ma dentro quella scatola ci sono sempre i soliti vecchi biscotti. Non sono cambiati, non sono cambiate le ricette, non è cambiato il modo di venderli o i canali per distribuirli, non è cambiato nemmeno il prezzo.
Studiando questa storia abbiamo scoperto che Bahlsen possiede un archivio pieno di tesori del passato, quando l’azienda era mecenate di artisti e realizzava pack e campagne meravigliose. In effetti sul sito esiste una sezione dedicata ai pack d’autore, che sono però datati 1904, 1930, 1958…
La storia degli ultimi anni della Bahlsen non sembra in realtà molto diversa da quella di un qualunque altro produttore di biscotti, che ha lasciato i suoi prodotti a prendere polvere sugli scaffali, modificando ricette o packaging quel tanto che basta per assecondare un nuovo gusto, senza mai scontentare le preferenze consolidate della massa.
La boldness del nuovo packaging non è stata seguita tempestivamente dalle azioni sul prodotto che erano state annunciate: nuove linee e nuovi prodotti, tra cui quelli gluten free e vegani.
E che c’entra questo con il brand?
Non è il nostro lavoro, si dirà. Noi ci occupiamo di design, non di business.
Ma le due cose non si possono più separare.
Come ha scritto di recente Paul Worthington, tendiamo a identificare il branding con il design, e il design con il craft, con l’esecuzione e la qualità estetica. È un errore di prospettiva che non viene solo dal pubblico, ma dai designer stessi.
Ora che il design è diventato una disciplina popolare, molto più visibile e celebrata, ci illudiamo che basti la qualità del design - mediamente sempre più alta - a creare un’identità di brand efficace e davvero distintiva.
Ma non è così: per quanto ben concepita e ben progettata possa essere un’identità, resta irrilevante se non coincide con le azioni e se non aiuta un’azienda a mantenere le proprie promesse. Discutiamo a lungo sulle qualità di un’esecuzione, sull’estetica del design, sulle sfumature e i dettagli, e molto meno sulla sola questione davvero importante: quanto riesce a essere unica e distintiva un’identità? In che modo consente a un brand di emergere e di mettere a fuoco la propria proposta di valore, la qualità che lo distingue da tutti gli altri?
Al contrario, gli standard del design hanno ristretto il campo, e quindi più un’identità si distanzia da ciò che è considerato accettabile, più viene criticata e affossata. Ma creare distanza dovrebbe essere proprio il compito principale di una identità riuscita.
Nel nostro futuro preferibile questo criterio di valutazione dovrà cambiare: non è l’esecuzione a dare valore a un brand design, anche perché sempre di più l’esecuzione sarà standardizzata dall’automatizzazione resa possibile dall’intelligenza artificiale.
Un brand non è un logo, si dice sempre; ma non è nemmeno l’aspetto di un sito web, il tono di voce dei messaggi di marketing, o la confezione che incarta un prodotto. Un brand è l’idea che organizza ogni attività di un’azienda, compresi i prodotti, la user experience, i canali di vendita, la comunicazione, il recruiting e i processi interni.
Le persone percepiscono il brand “tra le righe”, in ciò che non è immediatamente visibile; lo riconoscono non per quello che dice, ma per quello che effettivamente fa. L’identità di un brand, dunque, dovrebbe orientare la sua strategia di azione, e ispirare ogni tipo di decisione, non solo quelle estetiche o comunicative.
Se Lego è molto di più di un’azienda di giocattoli, ma un simbolo mondiale dell’idea di gioco, ciò non dipende dal look del suo sito o dal tono del marketing: dipende dal posizionamento, dai prodotti, dalle collaborazioni, dalla costruzione di una community, dal modello di business e dai processi di innovazione.
Se Patagonia è percepito come il brand che è disposto a sacrificare tutto pur di salvare il pianeta, non dipende dalla bellezza del design, ma dalla decisione di fare causa al governo degli Stati Uniti o di rifiutare la collaborazione con investitori considerati non etici. Si tratta di azioni strategiche che derivano dalla coerenza dell’identità di brand.
La nuova identità di Bahlsen aveva costruito una possibile piattaforma strategica per l’azienda: Bahlsen, con i suoi close-up che entrano dentro al prodotto, è l’azienda per cui ogni dettaglio crea un mondo e fa la differenza? Ma questa presa di posizione doveva riflettersi su tutta la struttura organizzativa, sulla concezione del prodotto, sulle strategie di retail, sul prezzo.
Nelle aziende più riconoscibili e profittevoli strategie di business e strategie di brand non sono mai separate. Cosa è business e cosa è brand per Tesla, Apple, Meta? Distinguere le due cose è impossibile. Perché separare il brand dal business è un errore: per capire se la tua nuova scatola funzionerà, devi guardarci dentro.