Per millenni abbiamo fondato la società, l’economia, la cultura sull’osservazione del passato. Abbiamo cercato le soluzioni ai problemi guardando ciò che avevamo alle spalle.
Oggi, invece, crediamo che ci sia più bisogno di futuro che di passato. Troppo concentrati su quello che siamo (o peggio, che eravamo), non pensiamo a quello che vorremmo essere.
Sì è vero, parliamo un sacco di futuro: ma lo facciamo per dipingere scenari catastrofici da scongiurare. È più raro che qualcuno parli dei Futuri Preferibili, gli scenari che davvero vorremmo vedere realizzati, per noi, per le persone intorno a noi, per il pianeta.
In questa newsletter io e Paolo raccontiamo i nostri Futuri Preferibili, in tre semplici mosse: partiamo da qualcosa che accade nel presente, facciamo un passo indietro nel passato per prendere la rincorsa, e poi proviamo a immaginare il futuro. Non per prevederlo, ma per provare a indirizzarlo.
Andiamo?
Noi siamo qui
Ho guardato The Playlist, la miniserie di Netflix sulla nascita e l’evoluzione di Spotify. È molto interessante per capire come nasce un prodotto digitale, e quali sfide culturali, tecnologiche, di design e di business deve affrontare. È bella anche la soluzione narrativa con cui sono riusciti a parlare di questi temi senza appesantire il racconto.
Ma la serie mi ha fatto riflettere soprattutto sulle “leggi naturali” di evoluzione delle aziende e in particolare sul modello delle piattaforme. Con la crisi che minaccia Meta, i licenziamenti di Amazon, il caos che Elon Musk ha portato dentro Twitter, un po’ tutti si stanno chiedendo cosa accadrà alle realtà che hanno letteralmente plasmato il nostro mondo. E quindi cosa accadrà al nostro mondo.
Anche perché tutte queste realtà, per quanto diverse tra di loro, hanno seguito una parabola simile: sono nate come startup che volevano distruggere l’establishment, e sono diventate l’establishment. È successo anche a Spotify, che oggi detiene lo stesso strapotere un tempo attribuito alle case discografiche contro cui ha combattuto. Ora tutti guardiamo al paesaggio globale dominato dai nuovi giganti e ci chiediamo: che futuro ha questo nuovo establishment?
Flashback
Di sicuro sappiamo qual è il suo passato. Sappiamo cioè quanto in profondità le piattaforme hanno cambiato le nostre vite: chi si ricorda come scaricavamo le canzoni 20 anni fa?
Sappiamo a quali bisogni, a quale desiderio di libertà e di cambiamento ha risposto la nascita delle piattaforme.
Dopo aver guardato The Playlist ho rintracciato una specie di prequel involontario della serie, il documentario TPB AFK. Il titolo sta per The Pirate Bay Away From Keyboard. Racconta la storia dei fondatori del sito di file sharing The Pirate Bay e aiuta a capire come mai è nata Spotify, e perché proprio in Svezia.
Le piattaforme hanno portato in superficie il bisogno di socialità, di condivisione, di connessione che animava la rete nella sua fase iniziale. Hanno concretizzato una richiesta diffusa di orizzontalità e democrazia, la volontà di abbattere le gerarchie e di eliminare le mediazioni che tenevano le persone lontane dalle cose che amavano fare, dire, ascoltare e produrre. Il web 2.0 è stata una rivoluzione: l’ideale di un mondo libero, democratico, dove tutti potevano avere accesso all’informazione ed esprimersi, dove la cultura non era privilegio di pochi, ma beneficio di tutti.
Di quella rivoluzione io, come tanti altri, sono diventato un ambasciatore e un attivista. Ho cercato di affermarne i principi in tutte le cose che ho fatto, dal lavoro alla politica. Ho studiato e cercato di capire internet con entusiasmo, e questo entusiasmo mi ha portato fino agli hackerspace della Silicon Valley, inseguendo il sogno dei miei miti dell’epoca e il futuro che immaginavano.
Il sogno non è rimasto confinato a un manipolo di attivisti: negli anni ho visto i grandi brand globali assorbire i principi della cultura digitale, portarli nelle loro azioni e nella loro comunicazione. Oggi, con la crisi delle piattaforme, questi principi sono investiti da un’ondata di scetticismo. I liberatori sono diventati i cattivi, i rivoluzionari di un tempo si sono trasformati nei conservatori dello status quo.
E quindi, che futuro ci aspetta?
Fast Forward
Più guardo allo scenario presente, più mi convinco di una cosa: non dovremmo smettere di credere nelle promesse che hanno fatto nascere le piattaforme, e nella possibilità di realizzarle. La rivoluzione non è ancora finita, e forse anche gli scossoni che stanno rimescolando la cultura digitale sono una trasformazione necessaria. Non mi stupirebbe se dal rimescolamento in atto nascessero imprevedibili startup innovative, fondate dai “fuoriusciti” dalle piattaforme, capaci di riprendere il discorso delle piattaforme imparando dagli errori commessi in questi anni.
Nella richiesta di libertà e di condivisione che ha animato realtà come The Pirate Bay c’era per me il fermento e lo spirito che dovrebbero nutrire il futuro preferibile di Internet e della cultura digitale.
Torniamo al documentario TPB AFK. Durante il processo contro il collettivo giudici e avvocati utilizzano l’espressione IRL (“In Real Life”) per distinguere ciò che accade nel mondo “reale" da quello che accade nel mondo “virtuale”. E i tre di TPB li contraddicono dicendo: “Noi preferiamo l’espressione AFK – Away From Keyboard”. Perché tutto quello che accade mediato da Internet è reale - sono reali le persone che si connettono, così come i contenuti e i beni che si scambiano, o le relazioni che si creano. L’unica differenza è che alcune cose accadono alla tastiera, altre lontano da essa. Se sostituite alla parola “tastiera” qualcosa tipo “VR helmet” o “AR glasses” eccovi spiegata la filosofia del metaverso, con 15 anni di anticipo.
Non so se il metaverso sarà il nome che prenderà il nuovo restyling degli ambienti digitali. Ma credo che a renderlo un posto vivo e significativo saranno le organizzazioni che riusciranno a portarci la stessa richiesta di libertà e di condivisione dei pirati. Le organizzazioni e le persone capaci di riprendersi il diritto di sognare che possiamo essere liberi e vivere in un mondo più equo, giusto e solidale. Di riprendersi il coraggio di fare dichiarazioni attiviste. Di portare questi sogni, le cose in cui credono, nelle proprie campagne e nel proprio lavoro: perché un brand che funziona provoca, muove le coscienze, traccia dei percorsi di scoperta individuale e collettiva, offre uno sguardo positivo sul futuro. E lo aiuta a diventare un futuro preferibile.
Al prossimo futuro,
Matteo
Nei miei “Futuri preferibili” mi auspico che la potenza del design diventi sempre più democratica, andando oltre i brand, sino a insinuarsi nelle basi della società in cui viviamo. Sarebbe bello una materia di “Speculative Design” già alle elementari – perché no anche alla materna, che insegni a progettare il futuro.
Curioso di leggere i prossimi numeri!
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È stato un piacere lavorare all'identità di questo progetto ♥️
Molto bella! 👏🏻👏🏻👏🏻