In questa newsletter io e Paolo raccontiamo i nostri Futuri Preferibili in tre mosse: partiamo da qualcosa che accade nel presente, prendiamo la rincorsa nel passato e poi facciamo un salto nel futuro. Non per prevederlo, ma per provare a indirizzarlo.
Andiamo?
Noi siamo qui
C’era una volta la sharing economy: l’idea che internet fosse un posto in cui poter scambiare, condividere, generare valore secondo leggi diverse da quelle del mercato. Come ha suggerito il nostro amico Simone, l’idea della condivisione libera è stata fagocitata da un modello di economia digitale che trasforma valori radicali e potenzialmente rivoluzionari in opportunità di profitto: da Couchsurfing ad Airbnb il passo è sempre troppo breve.
Se non ricordate cos’era Couchsurfing vuol dire che: a) la diagnosi è corretta; b) siete molto giovani.
Non si è esaurita soltanto la sharing economy, dunque, ma l’idea più generale che internet possa contribuire a cambiare il mondo per il meglio.
Alle origini, la Silicon Valley si è nutrita dello spirito della cultura hippie e dei movimenti contro-culturali. Era un posto in cui si sperimentava per il gusto di sperimentare, guidati dall’idea utopica che l’accesso generalizzato alla conoscenza avrebbe reso migliore la società. Questo sottofondo di utopia tecnologica si è conservato negli anni, anche mentre le origini hippie sfumavano, nella convinzione che la cultura digitale avrebbe avuto un impatto largamente positivo sulla vita delle persone.
Nel 1997, per esempio, Nicholas Negroponte scriveva che internet avrebbe portato la pace nel mondo rompendo i confini nazionali. Tra vent’anni, diceva, i bambini non sapranno che cosa significhi la parola nazionalismo.
Purtroppo non solo la profezia di Negroponte non si è avverata, ma il luogo dell’utopia si è trasformato in uno spazio iper-competitivo guidato prevalentemente dal profitto.
Eppure un tempo internet era un luogo vasto, in cui sembravano esserci infiniti posti da visitare e infinite cose da leggere. Ciò che era possibile vedere non era protetto da qualche algoritmo segreto: bastava semplicemente andare lì fuori e trovarlo.
Ecco, che fine ha fatto questa vastità di cui tutti noi ci siamo innamorati? Dove sono finite le utopie di internet? Sono del tutto irrecuperabili?
Flashback
Per noi la risposta è no, non sono del tutto esaurite, e c’è un esempio di cui vale la pena ripercorrere la storia: Wikipedia.
Fondato nel 2001 da Wales e Larry Sanger, Wikipedia è il settimo sito più visitato al mondo.
Per lo più è stato costruito e alimentato da gruppi di nerd, di appassionati liberi e disinteressati, di fact-checker ossessivo-compulsivi, attraverso un sistema pensato per rendere possibile la condivisione e la collaborazione. Si stima che ogni mese tra le 60.000 e le 80.000 persone contribuiscono alla sviluppo del sito: probabilmente la più grande opera collettiva mai tentata dalla cultura umana.
All’inizio su Wikipedia gravava il sospetto di inaccuratezza e superficialità: l’idea di un’enciclopedia open-source era impensabile per gli umani, abituati ad affidare il sapere a pochi selezionati individui. A scuola e all’università era proibito citarla come fonte. Ma ora le cose sono notevolmente cambiate: in un mondo digitale attraversato da fake-news e deep fake, Wikipedia è un baluardo di affidabilità. E il suo modello continua a testimoniare che sì, l’utopia ottimistica delle origini di internet non era sbagliata: si può costruire un posto in cui una rete di persone da tutto il mondo collaborano per creare conoscenza gratuita, a beneficio di tutti.
Ma perché Wikipedia funziona così bene?
Primo: c’è uno scopo molto chiaro, scrivere un’enciclopedia.
Non è come i social network, che ti chiedono: “hey, dimmi quello che ti passa per la testa”. Su Wikipedia si scrive un articolo e si parla di come scrivere e migliorare quell’articolo. All’interno della voce “Donald Trump” non si trova la contrapposizione esasperata delle diverse fazioni: si discute in modo anche molto animato, ma sempre senza perdere di vista l’obiettivo principale, scrivere una voce che sia utile a tutti, non esprimere opinioni personali e alimentare conflitti.
Secondo: il potere, il controllo, sono nelle mani degli utenti.
Il modello di distribuzione del potere all’interno dei social media è feudale: in un certo senso, siamo tutti al servizio di un grande “signore” centrale. I confini di ciò che si può dire o fare sono fissati in modo abbastanza rigido e gestiti da moderatori che lavorano per le piattaforme. Persone che fanno del loro meglio, ma sono messe di fronte a un compito impossibile: arginare dall’alto la marea di contenuti potenzialmente dannosi. Quando invece la moderazione è affidata a piccoli gruppi che collaborano per tenere in ordine il proprio spazio di competenza, il compito diventa più realistico.
Terzo: il modello di business non è la pubblicità.
Quando il contenuto è gratuito e si finanzia attraverso la pubblicità, la strada che porta al sensazionalismo e al clickbait è molto facile da imboccare. Wikipedia si sostiene con le donazioni, ma non è l’unica via possibile. Una via possibile potrebbe essere pagare per il contenuto. Ci vogliono cura e attenzione per dare alle persone un buon motivo per pagare dei contenuti. Se la donazione su vasta scala è un modello difficile da replicare, è importante ricordare che la scelta tra pubblicità e pagamento ha una fortissima influenza sulla forma dei contenuti che produciamo.
E allora, se Wikipedia è un esempio così virtuoso, perché ci sembra che l’utopia di internet sia morta? Perché è rimasto l’unico esempio visibile. Attenzione, non l’unico esempio esistente: ma l’unico che ha una posizione tra i siti più visitati e in generale rientra tra le piattaforme e i brand che occupano uno spazio significativo nella nostra attenzione.
La nostra attenzione, infatti, è perlopiù monopolizzata da poche piattaforme: Google, Amazon, Meta, Tiktok, Twitter…
Ma internet non è stato pensato per essere così piccolo. Non è stato pensato perché quattro-cinque player globali filtrassero tutta la conoscenza disponibile, e decidessero cosa dobbiamo e non dobbiamo vedere ogni giorno. Internet doveva essere un luogo pieno di nascondigli da scoprire, di territori da esplorare, di cose sconosciute da portare alla luce. Un luogo dominato dalla sorpresa e dalla condivisione. Invece, come accade spesso quando un certo tipo di dinamiche economiche si mettono in moto, è stato colonizzato e uniformato.
Fast forward
Nel 2004 Chris Anderson propose quella che poi sarebbe diventata una celebre teoria per spiegare l’economia di internet: The Long Tail, la coda lunga.
I negozi reali hanno un limite di spazio, spiegava Anderson, e quindi sono costretti a far arrivare sugli scaffali solo un numero limitato di prodotti, i più popolari. Le piattaforme invece possono contare su uno spazio potenzialmente infinito, e questo ha avuto conseguenze profonde su tutti i modelli di distribuzione, da quelli della cultura a quelli delle merci, dai libri alle cucine.
Internet ha fatto saltare le mediazioni, ha aperto i mercati, e ha permesso ai consumatori di conoscere ed esplorare molte più opzioni di quelle prima selezionate dai rivenditori; è questa la coda lunga, la parte delle curve di vendita dove si collocano le nicchie: tante cose diverse con pochi (ma spesso affezionati) utenti. La possibilità di vendere (e comprare) anche poche quantità di un numero molto maggiore di prodotti.
In parte è andata così: sono nati degli “aggregatori” capaci di offrire assortimenti pressoché illimitati, sia di prodotti fisici (Amazon, Shopify), sia di prodotti digitali (Netflix, Spotify). Questa trasformazione ha portato benefici certo alle piattaforme, ma anche alle persone, che ora danno per scontata la disponibilità sconfinata di qualunque cosa. Mentre vent’anni fa sarebbe stato inconcepibile che chiunque potesse vedere istantaneamente una soap opera turca, o imparare a cucinare una ricetta vegana dello Zimbabwe.
Il problema è che forse Anderson aveva sovrastimato la capacità di suggerimento degli algoritmi delle piattaforme. I sistemi di raccomandazione non si limitano a proporre agli utenti le cose più giuste per loro: continuano a spingere i prodotti e i contenuti più popolari, e hanno comunque interesse a fare in modo che le produzioni più importanti raggiungano i numeri maggiori.
Questa dinamica ha un impatto notevole soprattutto sulla produzione e sulla fruizione dei contenuti, sullo spazio della cultura, dell’informazione e dell’intrattenimento, in cui rischia di marginalizzare sempre di più le cose significative. La competizione tra le diverse nicchie si intensifica: gli scaffali digitali sono infiniti, ma il tempo e l’attenzione delle persone no, e con il proliferare dei contenuti gratuiti distinguersi e farsi scegliere è sempre più difficile. E quindi ecco che ricompare la pubblicità, gli ads che cercano di catturare la nostra attenzione con la stessa logica espansiva già usata per i prodotti sugli scaffali.
E la coda lunga? Al suo posto ci troviamo una nube di contenuti che ambiscono a crescere quanto più possibile, ma incontrano l’ostacolo delle piattaforme che da un lato estraggono profitto dagli aspiranti creator, e dall’altro fanno da filtro e permettono a pochi contenuti di bucare il muro del silenzio e dell’invisibilità. La coda lunga è rimasta intrappolata dentro la logica delle piattaforme.
Prima c’erano contenuti rilevanti, di qualità, decisivi per l'apprendimento e la crescita delle persone, ma erano spesso inaccessibili, monopolio di pochi distributori. Internet ha liberato i contenuti, e le piattaforme hanno promesso di aggregarli per renderli disponibili e accessibili a tutti, ovunque. Via via che le piattaforme crescono, però, tendono a nascondere di nuovo i contenuti rilevanti per rendere visibili quelli più popolari. Gli aggregatori sono diventati la testa della curva, e stanno di nuovo strozzando la coda, mangiandosi tutta la nostra attenzione.
Ed eccoci arrivati al nostro futuro preferibile, che oggi si compone di due parti. Per ridare spazio ai contenuti rilevanti e significativi, e riuscire a produrne di nuovi, dovremmo:
Imparare da Wikipedia per rendere migliori le nostre piattaforme
Dar loro delle finalità chiare, lasciare il controllo agli utenti, sostenerle con modelli di business che premiano la qualità dei contenuti.
Ricostruire la coda lunga dell’attenzione
Misurare in che modo concentriamo la nostra attenzione, su quali piattaforme ci soffermiamo di più (i nostri dispositivi già ce lo consentono); frammentare questa attenzione in unità più piccole; distribuire l’attenzione su più piattaforme e più canali diversi.
Ridistribuire l’attenzione è l’unico modo per restare creativi, per premiare chi ancora insegue l’inaspettato, per restituire a internet e alla cultura digitale il loro spirito di libertà e sperimentazione. Se Anderson diceva “the future of business is selling less of more”, noi diciamo: “il futuro della cultura, della nostra crescita umana e professionale, è dividere l’attenzione per moltiplicare le scoperte”.