L’intelligenza è smisurata
L’età della misurazione è finita: ora ci serve più intuito, e meno certezze
In questa newsletter raccontiamo i nostri Futuri Preferibili in tre mosse: partiamo da qualcosa che accade nel presente, prendiamo la rincorsa nel passato e facciamo un salto nel futuro. Non per prevederlo, ma per provare a indirizzarlo.
Noi siamo qui
Sempre meno determinare, concludere, analizzare. E sempre più sentire, immaginare, percepire.
Qualche anno fa un gruppo di ricercatori ha analizzato il linguaggio di milioni di libri e articoli pubblicati tra il 1850 e il 2019. E ha osservato che negli ultimi 10-15 anni c’è stato un declino del lessico legato alla razionalità, e un aumento considerevole nell’uso delle parole legate all’intuizione, all’emotività e alle percezione soggettive.
Il fenomeno è stato confermato anche da studi più recenti sulle ricerche online e il sentiment dei social. E segnala una tendenza che va oltre l’uso del linguaggio: riguarda il modo in cui pensiamo, decidiamo e interagiamo con il mondo.
I ricercatori che hanno condotto lo studio intendevano mostrare lo scivolamento verso la post-verità. Qualche anno dopo però possiamo ipotizzare che in questo allontanamento dal linguaggio razione c’è qualcosa di più.
Anche perché non ci siamo rifugiati del tutto nel suo opposto, il linguaggio irrazionale. Ma ci siamo avvicinati al linguaggio dell’intuizione e dell’immaginazione, che sono forme diverse e profonde di pensiero. Non coinvolgono solo l’analisi dei dati, ma l’analisi di sintomi, segnali, impressioni.
Forse nell’epoca della razionalità algoritmica, dominata da metriche e dati, il riemergere dell’intuizione segnala un bisogno più profondo.
Flashback
Lo stesso studio ci dice che per oltre un secolo la traiettoria è stata opposta. Dal 1850 agli anni ’80 del Novecento il linguaggio della razionalità è cresciuto senza esitazioni.
Le parole hanno accompagnato la marcia trionfale del metodo scientifico, della rivoluzione industriale e dell’avanzata del capitalismo moderno. La logica, il calcolo e la quantificazione sono diventati il linguaggio dominante.
La diffusione delle tecnologie digitali poi ha promesso di rendere ancora più forte la stretta della razionalità: tracciamento dei dati, personalizzazione, possibilità di previsione sembravano eliminare ogni spazio di incertezza e di indeterminazione.
Così tutto ciò che prima era nel territorio della creatività, della scommessa, dell’intuito veniva messo sotto il dominio della razionalità e dell’analisi. Nasceva così la filosofia manageriale che Paul Worthington ha chiamato measureship.
Il mantra di questa filosofia diceva: tutto ciò che si può misurare si può anche gestire. Ma in realtà andrebbe rovesciato: scegliamo di gestire solo ciò che possiamo misurare.
La measureship è un’ortodossia basata sulla misurazione dei parametri quantitativi, l’efficienza sistematica, l’ottimizzazione dei processi. Il management del XXI ha rinunciato all’aleatorietà e al rischio che è insito in ogni strategia. Ha messo da parte esperienza, intuizione, valutazione qualitativa, e ha deciso di credere solo a ciò che si vede.
Nel frattempo siamo entrati in un’era in cui è veramente difficile dire “non lo so”, perché possiamo sapere praticamente tutto. Dalla paura per la post-verità, siamo passati a una cultura dominata da un eccesso di verità, nella forma della certezza inscalfibile.
E allora probabilmente nel ritorno dell’intuizione e dell’immaginazione c’è anche un inizio di ribellione a questo dominio.
Fast Forward
Uno studio pubblicato nel 2022 da Harvard Business Review dà un altro indizio di questa trasformazione. Registra uno shift nelle competenze richieste ai top manager: non più competenze hard, finanziarie o operative, ma richiesta crescente di soft e social skills.
Empatia, intelligenza emotiva, capacità di ascolto e comunicazione. I leader di oggi devono navigare contesti iper-complessi, mediare tra stakeholder globali e comprendere dinamiche aziendali che sfuggono agli schemi quantitativi.
I CEO non vengono più scelti solo per la loro abilità nel razionalizzare ed efficentare. Vengono scelti per la loro capacità di sintetizzare le informazioni, andare oltre l’analisi dei dati, e ispirare comportamenti trasformativi.
Non è più solo una questione di calcoli e numeri: serve la capacità di cogliere pattern nascosti, di leggere tra le righe, di dare senso al caos.
Ma la cosa più interessante è che in questo ritorno dell’intuizione potremmo trovare un’alleata insospettabile: l’intelligenza artificiale. Proprio lei, la grande eifficentatrice, potrebbe aiutarci a uscire dalla schiavitù dell’efficienza.
C’è un equivoco infatti che riguarda l’utilizzo dell’AI generativa nelle aziende. Tutti la presentano come un acceleratore della produttività, ma il suo potenziale più interessante potrebbe non essere questo. L’AI funziona soprattutto quando diventa una fucina di ispirazioni, capace di dare profondità ai contesti, arricchire le informazioni e ridurre il livello di astrazione.
Soprattutto, l’AI ci permette di reintrodurre i dati qualitativi nei processi decisionali e creativi. Gli aspetti qualitativi infatti sono quelli più difficili da misurare, perché sono spesso non strutturati e “informi”. L’AI però è bravissima a fare proprio questo: tradurre informazioni non strutturate in dati leggibili e interrogabili.
Grazie al supporto dell’AI saremo di nuovo capaci di usare le informazioni qualitative per costruire narrazioni significative, storie potenti e azionabili. E potremo tornare a prendere decisioni e a impostare strategie sulla base dell’interpretazione di pattern, non solo sulla lettura dei dati.
Se il management data-driven è stato a lungo un generatore automatico di soluzioni prevedibili, l’AI può diventare un autentico amplificatore dell’intelligenza umana.
Se continuiamo a ottimizzare il già noto, non riusciremo mai a dare una direzione al futuro. Nel nostro Futuro Preferibile, invece, l’analisi razionale e l’intuizione si intrecciano, e l’AI ci aiuta a esplorare territori di conoscenza inesplorati. I dati non sono più una gabbia, ma una piattaforma di lancio per creatività e innovazione. I leader non sono freddi esecutori di metriche, ma architetti di visioni complesse, capaci di unire intuito, sensibilità e capacità analitica. La conoscenza non si limita a rispondere alle domande giuste, ma a porre quelle che ancora non ci siamo fatti.
Sarebbe davvero un bel paradosso, se fosse proprio l’AI a rimetterci nella stessa condizione che ha dato inizio alla conoscenza umana: quella in cui sappiamo di non sapere. Da quando Socrate ha detto so di non sapere, infatti, abbiamo messo in moto una catena di idee inaspettate, connessioni improbabili, intuizioni folgoranti, invenzioni dirompenti. Possiamo farlo ancora.
"...partiamo da qualcosa che accade nel presente, prendiamo la rincorsa nel passato e facciamo un salto nel futuro con POSITIVITÀ" (scusate se mi permetto ma, almeno per me, è un punto fondamentale!) 👏💪