Framework? Lasciamoli alle macchine
Il futuro è di chi affronta ogni problema con la curiosità di un principiante
In questa newsletter io e Paolo raccontiamo i nostri Futuri Preferibili in tre mosse: partiamo da qualcosa che accade nel presente, prendiamo la rincorsa nel passato e poi facciamo un salto nel futuro. Non per prevederlo, ma per provare a indirizzarlo.
Noi siamo qui
Andrea ci invita a ragionare su questa bella intervista a Taamy Amaize, Chief Strategy Officer di COLLINS – uno degli studi di branding più conosciuti e stimati al mondo.
Nella parte centrale dell’intervista Taamy racconta la lezione più importante che ha imparato lavorando fianco a fianco con Brian Collins: essere troppo sicuri di sé è insidioso.
La self-confidence si insinua nelle nostre vite, mascherandosi da esperienza e know-how, con l’effetto di impigrire la nostra capacità di pensare. È qualcosa che Taamy ha imparato presto, quando all’inizio della sua carriera ha osservato professionisti con oltre quindici anni di carriera fare ipotesi automatiche, formulate troppo velocemente, arrivando spesso a conclusioni sbagliate.
Questo atteggiamento pigro e passivo chiude la strada alle ipotesi più strategiche e creative. Peggio ancora, uccide la curiosità e la fame dei più giovani, il cui pensiero divergente e potenzialmente innovativo viene soffocato dall’abitudine e dalla ripetizione di pattern consolidati.
Un effetto collaterale assurdo, se pensiamo che il nostro ruolo di designer e consulenti strategici dovrebbe essere quello di vedere modelli che potrebbero essere stati trascurati, o riconfigurare le informazioni a nostra disposizione per creare nuove opportunità.
Eppure l’ossessione di misurare il ritorno sull’investimento del processo creativo – il design di un brand, di un prodotto, di una campagna, di un’organizzazione – ha impigrito i creativi stessi, spingendoli a definire regole e processi da ripetere di fronte a qualsiasi problema, a prescindere dalla industry in cui ci si muove o dal cliente con cui si sta parlando.
Del resto, ripetere è molto più efficiente, scalabile ed economico che affrontare ogni problema con la curiosità di un principiante.
Flashback
Il business dei servizi scala quando viene impacchettato come se fosse un prodotto.
L’economia delle piattaforme ci ha insegnato da un lato a trattare ogni prodotto come se fosse un servizio (Everything-as-a-Service), dall’altro a disegnare servizi con le stesse logiche di un prodotto (feature, prezzo, target di mercato e canali distributivi ben definiti a priori e non personalizzati sulle richieste di ogni singolo cliente).
Questa prodottificazione dei servizi ha interessato anche consulenti, designer e creativi, che oggi costruiscono i loro servizi seguendo sempre la medesima ricetta:
con ipotesi e test individuano un servizio per il quale qualcuno è disposto a pagare;
impacchettano il servizio come se fosse un prodotto, brandizzandolo e rendendolo facile da capire e ricordare;
vendono il servizio-prodotto ad alcuni clienti pilota e usano questi clienti come tester per ottimizzare ogni passaggio del processo e ogni caratteristica del prodotto;
a questo punto sono pronti per assumere qualcuno che distribuisca il servizio-prodotto così configurato al posto loro, così da avere più tempo da dedicare alla vendita o alla creazione di nuovi prodotti-servizi.
Questo processo in linea generale funziona, ma la domanda da farci è: funziona anche quando in gioco c’è la definizione di una storia, di un prodotto, di un brand, di un set di valori, di un modello di business per un’organizzazione?
Funziona per aiutarci a fare ciò di cui un’organizzazione ha più bisogno, ovvero individuare le caratteristiche uniche da valorizzare e i problemi specifici da affrontare e risolvere?
Questo modello è abbastanza evoluto da farci cogliere le connessioni profonde tra la società, l’economia, la cultura e ciò che un’organizzazione fa? Le sole connessioni capaci di guidare le organizzazioni nella creazione di nuovo valore, reinventando le loro strategie di business, i modelli di crescita e di profitto?
Fast forward
Se siamo troppo concentrati sul riempire un framework o applicare un modello, perdiamo di vista la ragione più profonda del nostro lavoro. Dobbiamo ricordarci sempre di fare un passo indietro, mettendo in dubbio le nostre prime ipotesi e le nostre convinzioni. E di fronte a ogni problema dovremmo chiederci:
abbiamo messo il massimo della nostra immaginazione nella definizione e risoluzione del problema?
ci siamo fatti domande sufficientemente complesse?
stiamo andando oltre le conclusioni più ovvie?
le soluzioni che abbiamo individuato saranno abbastanza chiare, strategiche e visionarie da consegnare a chi lavora con noi gli strumenti per prendere decisioni anche difficili sul futuro?
Semplificando al massimo, si delineano presente e futuro preferibile per quattro soggetti protagonisti del processo creativo.
1.
I designer e i creativi delle consultancy più grandi tendono ad applicare rigidamente i loro framework proprietari, rispettando le fasi e i tempi di un processo normalmente ben definito. Le loro presentazioni sono all’apparenza complete e rigorose, ma spesso si fermano alla superficie. Nel loro Futuro Preferibile c’è l’immaginazione, la ribellione, la rottura delle regole per andare oltre la prima ipotesi e la soluzione più ovvia.
2.
I designer e i creativi delle consultancy più piccole sono tendenzialmente più focalizzati su una parte del processo, molto spesso sulla qualità del crafting e dell’execution, perdendo l’opportunità di essere una guida strategica per i loro clienti. Il loro Futuro Preferibile è un percorso di crescita nell’analisi, nella visione di sistema, nella capacità di pensiero e scrittura che va oltre un set di caratteri, colori e componenti di un design system.
3.
Le organizzazioni più piccole che si servono di una consulenza creativa hanno spesso poca cultura del brand, del design e della comunicazione. La fatica più grande che fanno è mettere a fuoco il loro problema: troppo spesso pensano di avere bisogno di un logo o di un sito, quando in realtà hanno bisogno di una value proposition, un nuovo linguaggio e una storia nuova da raccontare a un pubblico che continua a cambiare. Oggi scelgono il loro partner creativo e strategico valutandolo su una richiesta tattica, spesso sulla base del prezzo. Nel loro Futuro Preferibile c’è un percorso di crescita e maturità culturale verso la consapevolezza che il loro brand, la storia che raccontano ai loro stakeholder è l’elemento più distintivo e rilevante che possiedono e merita il partner e l’investimento giusto.
4.
Le organizzazioni più grandi, invece, scelgono spesso le consultancy più grandi e rinomate: dopotutto, "Nobody Gets Fired For Buying IBM". Ma alla luce di quello che abbiamo detto finora, vale davvero la pena affidare la definizione della propria ragion d’essere, dei propri valori, del proprio modello organizzativo e di business a chi troppo spesso si limita ad applicare un framework proprietario, con tempi e processi ben definiti, lasciando pochissimo spazio al dubbio, alla divergenza, alla capacità di giungere a conclusioni inaspettate e per questo più distintive ed eccitanti?
Nel Futuro Preferibile di queste organizzazioni c’è il coraggio di osare: la voglia di sfidare le grandi consultancy, di invitarle ad abbattere i loro framework. Ma c’è anche l’audacia di scegliere consultancy meno grandi e blasonate, che però abbiano più fame, più idee, più immaginazione, più voglia di affrontare ogni problema con la curiosità di un principiante.
Futuri Preferibili si prende una pausa e torna lunedì 4 settembre.
Buona estate!
Matteo e Paolo